Arriva al cuore degli studenti con
linguaggio pacato, senza mai proferire parole d'odio, per non perdere
di vista il suo messaggio: «Never again». Mai più. Lo ripete al
termine della sua testimonianza lasciata a una platea di centinaia di
studenti dei licei Copernico e Maffei, nell'aula magna del polo
Zanotto, all'università: «Mai più, nel nome di queste donne che
non hanno mai parlato con la lingua dell'odio, nonostante avessero
perso le loro famiglie», spiega indicando le madri e le vedove
musulmane di Srebrenica, Bosnia, che ogni anno l'11 luglio si
ritrovano a piangere gli 8.372 uomini assassinati nel genocidio del
1995, oggi ricordato da migliaia di cippi bianchi a Potocari, davanti
alla fabbrica di accumulatori, allora sede delle truppe olandesi
delle Nazioni Unite e oggi luogo simbolo dell'ultimo genocidio
d'Europa.
È Hasan Hasanovic, 43 anni, musulmano bosniaco, autore di Surviving Srebrenica, scampato
ai rastrellamenti, alle violenze, alla fame e alla sete, alla marcia
della morte a piedi verso la zona libera di Tuzla, e al genocidio che
gli ha tolto il fratello gemello, il padre e lo zio. Hasanovic da
allora è testimone di Srebrenica e nei giorni scorsi è stato all'incontro
all'università organizzato da Radici dei diritti dell'ateneo di
Verona.
A Srebrenica, zona protetta dall'Onu
durante la guerra in Bosnia, tra il 9 e l'11 luglio 1995 le truppe
serbo-bosniache di Ratko Mladić rastrellarono migliaia di musulmani
bosniaci. Separarono le donne con i bambini dagli uomini. Le prime
subirono stupri e deportazioni. I secondi, condotti su camion e
pullman pubblici in scuole - dove oggi i bimbi fanno lezione - o in
fabbriche, furono torturati e assassinati. Sepolti in fosse comuni e
poi dissotterrati e risepolti perché i loro corpi fossero smembrati,
annullati e irriconoscibili. Rendendo così ostiche le operazioni da
anni avviate a Tuzla dove, grazie alle prove del Dna, si riconsegna
un nome alle spoglie che vengono poi tumulate durante la cerimonia
collettiva dell'11 luglio a Potocari.
Nella zona protetta di Srebrenica si
erano rifugiati migliaia di bosniaci in fuga dal pericolo serbo: le
truppe di Mladić (arrestato per genocidio e stupri etnici soltanto
nel 2011) minacciavano di sfondare la zona. I cento caschi blu
olandesi a Potocari, forse per timore, forse per le false garanzie di
Mladić, fecero uscire dalla zona protetta i bosniaci di fatto
consegnandoli ai serbi.
Sulle responsabilità dell'Occidente
ancora si discute. «Trentamila bosniaci cercarono rifugio nella zona
protetta di Srebrenica perché credevano che le Nazioni Unite li
avrebbero protetti. Invece permisero che uomini e donne fossero
separati. Era ovvio cosa sarebbe successo. Ma non fecero niente»,
spiega Hasanovic. Ed è tuttora aperta anche la battaglia dei
testimoni come lui, oggi curatore del Memoriale per il genocidio di
Potocari. È una lotta alla negazione di quei fatti e contro la paura
di un passato che può ritornare: «Ancora non si è smesso di
pensare alla costituzione di una Grande Serbia e stanno aspettando il
momento giusto per farlo. Tuttora mi porto dietro quel senso di paura
dell'11 luglio, quando i serbi avanzavano e nessuno sapeva cosa
fare».
Oggi ha moglie e figlia ed è
tornato a Srebrenica. Come si vive là?
La mia famiglia è a Tuzla, ma io,
occupandomi del memoriale, sono sempre a Srebrenica che ora è nella
parte di amministrazione serba e vivere in un posto dove la politica
nega i fatti non è facile per i sopravvissuti. Ma non rinunciamo
alla lotta per la verità.
Il genocidio di Srebrenica è un
lutto collettivo femminile mai raccontato con odio. Sono fattori
correlati?
Sì. Uno degli obiettivi dei serbi era
di instillarci l'odio nei loro confronti, ma cedere a questo sarebbe
stato fare il loro gioco e diventare da vittime a carnefici. È un
fenomeno sociologico che si è ripetuto nella storia mondiale, dalla
quale abbiamo imparato però a non cadere nell'errore. La nostra
religione, inoltre, ci insegna l'amore e la tolleranza. La giustizia
non c'è e non la troveremo a questo mondo.
Dove la troverete?
L'unica soluzione è la ricerca della
giustizia ultraterrena. Srebrenica è stata concessa
all'amministrazione serba e il 90 per cento degli assassini non sono
finiti davanti ai tribunali, non è questa la giustizia vera. Ma un
giorno tutti gli esseri umani dovranno rispondere a Dio. Questo ci
tiene in vita.
A Srebrenica le Nazioni Unite si
girarono dall'altra parte. E non fu solo un non vedere...
Tutti sapevano. In quell'estate
bosniaci e croati avevano concluso offensive di liberazione con
successo. Così il mondo diede mano libera ai serbi a Srebrenica per
controbilanciare sul fronte militare e manifestare la propria
neutralità. Quello fu il momento in cui perdemmo il senso della
giustizia internazionale.
La negazione è la seconda fase di
un genocidio. Quali alleati avete oggi per difendere la verità?
L'unica strada per i Paesi europei è
emanare leggi che vietino di negare quanto accadde a Srebrenica o in
Rwanda o in Darfur. Non deve esserci un vacuum legale che consenta a
qualcuno di dire “stai mentendo”. Ma i politici non fanno il loro
lavoro. Perciò l'unico contributo che possiamo avere è dal mondo
dei media, dagli accademici e dalle scuole che facciano capire che
c'è una linea rossa che non si può oltrepassare.
A chi dedica oggi la sua
sopravvivenza?
Alle ottomila persone che non possono
parlare. Il destino ha voluto che sopravvivessi. È stata una
coincidenza, ma sono vivo per un motivo: raccontare quello che è
successo, parlare per chi non può più farlo. Per me questo non è
un lavoro. Non prendo denaro per giornate come questa. È la mia
missione.
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