«Si può stampare» era un tassello di
quel caleidoscopio letterario di cui si è persa memoria, ma che la
fondazione Cdec, del centro di
documentazione ebraica contemporanea di Milano, ha
ripubblicato nella nuova collana Scale Matte, nata a Venezia da
un’idea di Gadi Luzzatto Voghera, oggi direttore della fondazione,
e dell’amico giornalista Paolo Navarro Dina, rimasta per molto
tempo nel cassetto e rispolverata, in collaborazione
con la comunità ebraica di Venezia. Scale Matte (il richiamo è
all’edificio del ghetto di Venezia) pubblica, in forma anastatica e
con saggi introduttivi, libri
di valore
ma caduti nell’oblio inerenti la storia, la cultura e la tradizione
ebraica italiana e alla Shoah. Debutta con tre autori:
Silvia Forti, appunto, Attilio Milano e Adolfo Ottolenghi. E
proseguirà con Luciano
Morpurgo.
Di
questa iniziativa e del volume di Forti si parlerà oggi,
alle 17, alla biblioteca civica, con Luzzatto Voghera, con il
professor Renato Camurri, dell’Università di Verona, con l’editore
Luca Parisato e con Stefania Roncolato.
Il diario di Silvia Forti inizia a
Genova il 2 ottobre del 1938 con il dolore di una madre che vede
partire il figlio: «Volevamo salvarlo. Ecco è fatto; il prezzo non
importa». Il diario continua tra lacerazioni e valigie da preparare,
«case da disfare» e spostamenti da Genova a Torino, cui una
famiglia ebrea nell’anno delle leggi razziali è costretta. Il
diario deve andare in stampa dopo il 25 luglio 1943 con la
destituzione di Mussolini. Giorno di speranza. Ma non è così. Gli
avvenimenti successivi costringono Silvia Forti a fuggire e a entrare
in clandestinità a Piubega, nel Mantovano, poi a Firenze e infine a
Roma, nella Capitale liberata, ma con la coscienza di un Nord sotto
il fuoco della guerra, dove i parenti vengono deportati.
Silvia Forti nella quotidianità
anormale osserva persone e fatti («Niente nella vita mi interessa
come la conoscenza delle anime») e ne scrive fino al gennaio del
1945. Pochi mesi dopo per le edizioni «Dalmatia» il libro sarà
stampato. Un miracolo voluto da Ernesto Bonaiuti (1881-1946) attento
al dialogo tra mondo ebraico e mondo cristiano. Ne seguirà una
versione in America, nel 1946, «No time for silence». Ma le copie
saranno talmente poche che presto del volume si perderà ogni
traccia. Da qui l’idea di ristamparlo oggi con l’obiettivo che
raggiunga un ampio pubblico e che sia conosciuto, letto e discusso.
«Ci sono a catalogo libri sconosciuti ma che sono portatori di
significato attuali», spiega Luzzatto Voghera. «Nell’opera di
recupero della memoria partiamo da Silvia Forti, scrittrice asciutta
che entra direttamente negli animi dei personaggi che incontra. In
più ci fa vivere un momento specifico della persecuzione pur nel
tentativo di mantenere una normalità quotidiana. È un’osservatrice
di grande lucidità e di giudizio molto sereno».
È interessante guardarsi attorno,
scrive Silvia Forti nel novembre del 1938, quando vengono promulgate
la leggi razziali, e vede «spettatori» e «attori» di questo
«nuovissimo dramma». «Gli spettatori un po’ per egoismo, un po’
per superficialità e per amore del quieto vivere, non hanno una vaga
idea delle sofferenze che vengono inflitte ad una parte del loro
prossimo; preferiscono anzi ignorarle. Troppo comodo. Per mio conto,
non permetto loro di farlo. Devono saperlo tutto il male che oggi si
fa intorno a loro; devono conoscerle tutte le tragedie, grandi e
piccole, che si svolgono in tante famiglie; devono misurarlo
l’infinito dolore che travolge tante creature!». Silvia con la sua
penna decide di agire, dunque. «Bisogna parlare, non tacere; non
bisogna avere il pudore delle nostre pene. Tacendo per fierezza o per
disdegno, facciamo il gioco di quelli che preferiscono chiudere gli
occhi e ignorare il male che viene fatto, e non a loro insaputa;
tacendo per prudenza o per passività, facciamo l’opera di quelli
che vogliono perseguitare “in sordina”».
Nata nel 1889 da Elia Alessandro Forti
e Alisa Cavalieri, della comunità ebraica di Verona, nel 1913 Silvia
sposa il figlio di Cesare Lombroso, Ugo, dal quale avrà due figli,
Nora e Cesare. Professore universitario di Fisiologia, il marito
porta con sé la famiglia in Sicilia, poi a Genova finché viene
radiato dalla cattedra e ripara a Parigi dove insegnerà fino
all'occupazione della Francia. I figli andranno negli Stati Uniti
(Nora sposerà il fisico Bruno Rossi) e i coniugi Lombroso,
socialisti e antifascisti, torneranno in Italia. Silvia, rimasta
vedova nel 1952, raggiungerà i figli in America dove morirà nel
1979.
(Maria Vittoria Adami, L'Arena, 19 giugno 2019, p.18)
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