È il diario di «un
semplice gregario» del primo reggimento Granatieri, ma anche del
«più discreto e meno in vista dei letterati italiani», come lo
definì Eugenio Montale. La casa editrice Quodlibet rispolvera con
una nuova edizione, a cura di Giuseppe Sandrini, Guerra del '15,
di Giani Stuparich (1891-1961), facendo riscoprire ai lettori
italiani una tra le più raffinate prose del panorama letterario
triestino.
Giovane intellettuale
vociano, laureato in Lettere a Firenze, Stuparich a 24 anni si
arruola a Roma col fratello Carlo e l'amico Scipio Slataper
nell'esercito italiano, anziché in quello austroungarico, per
liberare la loro irredenta Trieste. Guerra del '15 è il
diario dei primi due mesi di guerra sulla Rocca di Monfalcone, nel
Carso, battesimo del fuoco per i due fratelli che in poche settimane
da giovani ardenti idealisti si trasformano in uomini, senza tuttavia
perdere i valori – seppur talvolta a fatica – che li hanno
condotti al fronte.
Il diario è uno scorcio
del primo conflitto mondiale da due diversi punti di vista: quello
dell'intellettuale che nelle notti trascorse nelle buche-trincee del
Carso, apre, con i ricordi, squarci sulla Firenze della Voce di
Prezzolini e Papini, sulle serate trascorse al caffè delle «Giubbe
rosse» con Slataper, Soffici, Rosai e Agnoletti; e quello
dell'irredentista che si arruola per liberare la sua città, vicina
al punto da immaginar di vedere la madre e la sorella, ma
irraggiungibile per la snervante fissità della guerra di trincea che
delude di continuo la smania di
gettarsi all'assalto e conquistare Trieste. Eppure, anche
«quando l'anima non brilla più negli occhi di nessuno», le
motivazioni dei fratelli volontari Stuparich, fonte talvolta di
sospetti da parte di ufficiali e compagni («Tu sei un triestino e
non si mai...»), non sfumano.
Due mesi, dal 2 giugno
all'8 agosto 1915, cambiano Giani e Carlo partiti da Roma «nuovi,
dalle scarpe al berretto» e con «lo zaino rimpinzato di libri». E
poi le marce, la stanchezza, le notti all'addiaccio tra stagni e
acquitrini e le trincee-buche, «sbrindellate» e piene di morti,
catapultano in un mondo irreale i due fratelli, maturandoli: «La
grande verdeggiante pianura che abbiamo attraversato baldanzosi, in
un'aureola di gloria, si restringe in quella buca terrosa piena di
cadaveri; lo sguardo abituato alla vaghezza di un'atmosfera di sogno,
si fissa acuto in quello strappo livido del terreno». Ma non viene
mai meno l'ardore della scelta interventista: «Vita di stenti, senza
orizzonti; tutto duole dentro di noi e tutto, fuori di noi, ci
affligge. S'aggiunge il malessere della sporcizia e, più umiliante
ancora, un senso disperato d'inerzia. La coscienza s'oscura nel
dubbio, se abbiamo fatto bene a voler la guerra. Questo è il
tormento più grave di tutti. Ma non può durare. L'animo si ribella
a questa debolezza. No, nessun'altra via era possibile, se non questa
scelta».
I due mesi sul Carso
combattuti fianco a fianco, precedono la nomina dei due «dioscuri»,
così erano chiamati, a Ufficiali della territoriale di Vicenza e
Verona, che condurrà Carlo nella placida Podestaria da dove scriverà
a Giani di sentir nostalgia delle trincee del Carso. È un rapporto
indissolubile il loro, che traspare in ogni pagina di Guerra del
'15. Cuori e menti battono all'unisono e con loro quelli di
Slataper. Ma Giani sarà l'unico a tornare. Scipio morirà per primo,
il 3 dicembre 1915, sul Podgora. Carlo, 21 anni compiuti nella
trincea del Lisert, morirà suicida sul Cengio, il 30 maggio 1916,
per non finire in mano agli austriaci. Giani sopravvivrà alla guerra
e alla prigionia, portando per sempre nel cuore quelle due croci e
facendosi custode delle loro memorie, vistando i luoghi che li
riguardano ed editando i loro scritti.
A curare l'introduzione
della prima edizione di Guerra del '15, del 1931, sarà un
altro scrittore e volontario, fatto prigioniero e anch'egli in lutto
per la morte dell'inseparabile fratello: Carlo Emilio Gadda.
L'ingegnere prosatore, ossessionato dal «guazzabuglio» della Grande
guerra, di Stuparich scrive: «Davanti a un simile stato di cose non
reagisce né con la folle ira né con l'accasciamento che sarebbero
stati nella mia propria natura, ma stupendamente si contiene in una
nota di fermezza e serenità». È la «salda compostezza» a guidare
la pacata prosa di Guerra del '15. Stuparich acuto osservatore
dei compagni diventa sceneggiatore nel descriverli uno a uno, come
fossero protagonisti di un film; l'indole intellettuale lo guida a
confrontare le loro riflessioni sulla guerra con le sue; infine è
poeta nelle descrizioni della natura «miracoloso conforto» per i
loro «animi abbattuti» nonostante la potenza distruttiva della
guerra: «Dei razzi illuminano a zone la valle con verdi abbaglianti;
un terzo riflettore, di là di Gradisca, spunta e polverizza le sue
lame di luce contro la volta celeste. Dopo mezz'ora tutto cessa e si
spegne; là dove folgoravano i chiarori della battaglia, in un magico
spettacolo di furie scatenate, brillano quiete le stelle. Vado ad
accucciarmi vicino a Carlo: ho il viso freddo e gli occhi stanchi».
Maria Vittoria Adami
L'Arena, 31 dicembre 2015
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