Con la schiena dritta sempre,
nonostante l'impresa che da ragazza le rubò cinque centimetri
d'altezza e nonostante i suoi 94 anni, ben portati, che la
costringono a camminare con un bastone. Che brandisce con forza
quando parla gesticolando. Con la schiena dritta e la lingua
schietta, Paola Del Din è una donna straordinaria che neppure
ventenne attraversò l'Italia occupata del 1944 con documenti segreti
cuciti nel cappotto da consegnare agli alleati a Firenze nel
tentativo – poi vanificato dagli effetti del precedente sbarco in
Normandia – di liberare lo Stivale dal nazifascismo con un approdo
dall'Alto Adriatico. Da Udine a Firenze e da lì a Roma, infine in
Puglia, a Monopoli, per poi tornare a casa («da mia mamma alla quale
avevo promesso che sarei tornata entro novembre») con un viaggio
rocambolesco conclusosi con un lancio in paracadute sulle sue terre
occupate e con la divisa militare inglese addosso.
Mossa da una visione liberale e
nazionale della battaglia antifascista, patriota della Osoppo attiva
nell'Udinese («Eravamo patrioti, non partigiani! Il partigiano sta
da una parte, noi eravamo per tutta l'Italia libera e onesta»), le
sue avventure ne hanno fatto la prima donna paracadutista militare
italiana e forse la prima anche ad aver effettuato un lancio di
guerra, mettendole al petto una Medaglia d'oro al valor militare.
L'unica -delle quattro conferite a donne viventi - per azione di
guerra.
Andrea Romoli con Paola Del Din al Festival èStoria 2017 |
È un fiume in piena, schietto e
trasparente, Paola Del Din quando racconta la sua storia che non ha
mai celebrato, un po' perché, dice, «ho fatto quello che dovevo»,
un po' perché l'ultimo giorno della seconda guerra mondiale fu per
lei il primo della guerra fredda, nelle sue terre sul confine
orientale vittime delle ambizioni di occupazione titine.
Ma oggi il giornalista Rai Andrea
Romoli ci restituisce quest'epopea con il volumetto Il diritto di
parlare (Gaspari Editore, 2017) presentato in anteprima al
festival èStoria di Gorizia.
Paola nasce a Pieve di Cadore nel 1923.
Il padre, Prospero, è capitano degli Alpini, reduce della Prima
Guerra, non iscritto al partito fascista; la madre Ines è figlia del
medico condotto di Recoaro. In famiglia ci sono anche Maria, la figlia
più grande, e Renato, maggiore di Paola di un anno e a lei
legatissimo. La famiglia si sposta nell'Udinese negli anni Trenta.
La famiglia Del Din (Gaspari Editore) |
Prospero parte per l'Africa nel 1935 e poi nel 1940 per la campagna
di Grecia dove, catturato, viene fatto prigioniero dagli inglesi e
condotto in India. Renato nel '38 intraprende la carriera militare. È
sottotenente nel 1943 quando per l'armistizio dell'8 settembre il suo
battaglione si scioglie. Forma allora un gruppo di Resistenza
patriota che confluirà nella Osoppo. In questo contesto cresce
Paola. Come staffetta porta in giro armi, documenti, informazioni. È
brava a tenere tutto per sé, chiede il meno possibile, per non
doverlo rivelare in caso di cattura e tortura. Renato organizza
attentati e sabotaggi contro i nazisti, ma muore il 25 aprile 1944
cercando di prendere una postazione tedesca a Tolmezzo. Paola lo
saprà un mese dopo. È struggente il suo dolore. Ma decide di
continuare la sua azione e il 20 luglio 1944 a Pielungo accetta la
proposta dell'ufficiale di collegamento inglese Manfred Von Czernin:
portare documenti a Firenze, occupata ma in fase di capitolazione,
per organizzare uno sbarco sull'Alto adriatico che accorci di un anno
la guerra. Paola parte, col benestare della madre che conta un marito
prigioniero, un figlio morto e l'altra figlia in Sicilia a fianco del
marito militare. Paola attraversa l'Italia in treno e su furgoni,
traghetti e mezzi guidati da tedeschi «con la mia faccia da
bamboccia e il libro di Glottologia per l'esame che dovevo dare
all'Università».
Il 15 agosto, da tempo a Firenze, passa le linee
in città e consegna al comando alleato i documenti che però
resteranno dimenticati per giorni in una cassaforte. Viene spostata a
Monopoli e come premio chiede la liberazione del padre che torna
dall'India e rivede a Roma. I due si separano di nuovo. Paola
frequenta un corso di addestramento in Puglia di quattro giorni di
paracadutismo con i militari inglesi per tornare in Friuli e
continuare l'attività con la Osoppo sempre in contatto con gli Alleati. Dopo quattro tentativi vani, il 9 aprile 1945 tocca la sua
terra: «Commisi un solo errore: non mi tolsi i guanti di lana. Mi
lanciai carica e le corde scivolavano per via dei guanti impedendomi
di frenare. Fu un atterraggio duro mi fratturai la caviglia e presi
un'insaccatura alla colonna vertebrale. Senza accorgermene persi
cinque centimetri d'altezza».
Finisce la guerra, ma non la lotta
della famiglia Del Din per la patria. Prospero attiva una rete per
impedire che Udine sia occupata dalle forze titine. Paola è al suo
fianco. Ma nel frattempo riprende la sua vita: la laurea, un
dottorato in Pennsilvania, la docenza, la famiglia.
Paola e Prospero a Roma (Gaspari Editore) |
Ma quei due anni da patriota,
costellati di pericoli, dolori, lontananze, sono un racconto che
tiene col fiato sospeso come in un film: «Non avevo paura. Ero
sicura di fare la cosa giusta. Il contorno non aveva senso, bisognava
fare quello che c'era da fare, niente era pericoloso. Non era un atto
di coraggio, sapevo che il rischio era grosso, ma la forza di quello
in cui si crede è più forte. E sono ancora qua. Quando si tratta
della libertà e della vita delle persone occorre avere un punto
fermo. Ho rischiato molto, ma l'ho fatto sapendo che era importante
per l'esistenza di molti: ho cercato di limitare la sofferenza della
mia gente. La patria non è un pezzo di terra, ma di figli, di nonni,
di padri».
Valeva la pena? «Sì. Per salvare dal
disastro quanto era stato costruito. Eravamo figli del Risorgimento,
il fascismo non c'entrava nulla con noi. Il nostro era desiderio di
uscire dal buio in cui eravamo finiti. Ho fatto quello che dovevo
fare, ma sono stata fortunatissima».
E come vede l'Italia di oggi? «Non è
quella che volevamo: libera, onesta, giusta. Ma per questo bisogna
continuare a non avere paura e dire ciò che si pensa in maniera
onesta. Si deve partecipare, non per fare le rivoluzioni, ma perché
altrimenti a lungo andare il silenzio si paga. Bisogna rimediare,
correggere, non distruggere per conservare l'unità sociale di questo
paese. Non si deve perdere l'ottimismo e sperare sempre che il buon
senso arrivi dove serve».
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