La strada da Vicchio si fa sempre più
stretta mentre si inerpica sulle alture del Mugello a 300 metri
d'altezza dove 50 anni fa il buio, le salite impervie e i boschi
rendevano gli inverni lunghi e lenti: un muro d'isolamento dal mondo
per un nugolo di pastori e contadini. Oggi luogo ameno della campagna
collinare fiorentina, facilmente raggiungibile con l'auto e visitato
da 12 mila persone l'anno, Barbiana nel 1954 era un punto sperduto
nell'universo, perfetto luogo d'esilio per quel prete che andava
fondando scuole popolari serali per giovani lavoratori, insegnando
che la padronanza della parola sarebbe stata il loro strumento di
riscatto e fermo sulla convinzione che buttare nel mondo un ragazzo
senza istruzione fosse come buttare in cielo un passerotto senza ali
(La parola fa eguali).
Nato a
Firenze il 27 maggio 1923 da una famiglia di ebrei agnostici e anticlericali
benestanti e istruito nelle migliori scuole
di Milano, convertitosi nel 1943, fu nella semplicità del
borgo di Barbiana che don Lorenzo – nei suoi ultimi otto anni di
vita – cambiò il mondo trasformando una chiesetta sperduta in
stella polare per poche case di contadini sparse qua e là, ma
lanciando un messaggio che arrivò ben più lontano, testimoniato
oggi dalle centinaia di istituti a lui intitolati. Lì fondò la
celebre scuola che diede un futuro a una trentina di bambini figli di
povera gente, che di futuro non ne avrebbero avuto. E lì, una volta
ceduto alla malattia che lo portò via a soli 44 anni, il 26 giugno
1967, volle riposare per sempre in quel cimiterino, formato da una
piccola cappella attorniata da poche tombe.
Scuola di intelletto e di vita, nata
per dare una chance a quei piccoli cresciuti lontani dal mondo e
sciolta nel 1968, Barbiana è ancora tale e quale. Tutta lì: un'aula
ricavata nel salotto del prete dove ancora campeggia la celebre frase
«I care», mi sta a cuore, contrario del motto fascista «Me ne
frego», e gli scaffali pieni di libri e l'astrolabio costruito da
don Milani e i suoi ragazzi insieme, di gruppo, com'era nel suo
metodo. Alle pareti, cartine dell'Europa nelle diverse fasi storiche
e i grafici elettorali che ritraggono il parlamento con i colori dei
partiti: un arcobaleno, nella Repubblica democratica, che si
contrappone all'emiciclo tutto nero del ventennio fascista. Pergolati
e giardino erano le aule estive dove il vecchio tavolo tuttora
collocato in classe veniva spostato; vicino, una piscina prima
costruita dai ragazzini di Barbiana e poi da loro usata per imparare
a nuotare; infine i laboratori, attigui alla chiesa, dove una volta
cresciuti impararono un mestiere.
Don Milani arrivò una sera di
dicembre, buia, fredda e umida. Parroco di San Donato di Calenzano,
dove aveva fondato una scuola popolare per giovani lavoratori, era
persona scomoda: insegnava che la differenza tra ricchi e poveri - di
cultura e quindi di denaro - era la parola. A 130 ragazzi offrì così
strumenti per cercare ciascuno la sua verità. Ma questo scontentava
molti: «I benpensanti della Democrazia cristiana perché parlava da
comunista e i comunisti perché svuotava le case del popolo. E si sa,
quando in un campanile di quattro campane tre suonano in un modo e
una in un altro, quella diversa va cambiata», racconta Agostino
Burberi, 70 anni, sindacalista Cisl Tessili e oggi presidente della
Fondazione Barbiana che si prende cura del sito, accompagnando i
visitatori, nei luoghi mantenuti immutati e semplici prestando fede
alla promessa fatta a don Milani che in punto di morte chiese ai suoi
ragazzi: «Non permettete che i borghesi intellettuali si
impossessino di me».
Burberi fu tra i primi sei alunni della
scuola di Barbiana e il primo a incontrare don Milani. «Ero
chierichetto in chiesa. Arrivò col buio, quel 7 dicembre 1954. Si
aprì la porta; lo vidi entrare. Era venuto senza vedere prima
Barbiana. Lo avevano mandato e lui aveva obbedito – continua
Burberi –. Era lo straniero che aspettavamo. Entrò in chiesa,
guardò e si mise a pregare. Il giorno dopo fece il giro delle case
dei contadini dicendo che avrebbe fatto una scuola per i loro
bambini. Il salotto del prete divenne l'aula. Non eravamo mai entrati
in quella stanza, da allora fu sempre aperta».
Don Milani cominciò dall'abc con sei
bambini di diverse età, tutti maschi, per passare all'educazione
civica, alla Costituzione e a una formazione anche
professionalizzante. «Si faceva scuola 12 ore al giorno, tutti i
giorni. Negli otto anni sono passati per quei banchi una trentina di
ragazzi. Era un'istruzione pratica, di vita, per permetterci di fare
delle cose. Non c'erano voti e si andava avanti solo quando l'ultimo
aveva capito. Urlava, sì, era manesco talvolta, ma difendo quel
metodo». Perché studiare per quei bambini sarebbe stata la loro
chance. «Si studiava per sapere. Ci abituava a essere critici e ci
rendeva orgogliosi anche nei confronti di quelli del paese. Eravamo
figli di contadini umili, ma leggevamo articoli di giornale perché
la padronanza della parola era fondamentale. La sua bandiera di vita
fu la parola. La sua eredità: la coerenza».
Ardeva nel desiderio di riscossa degli
ultimi, don Milani. Per questo la scuola era un luogo sacro: «Come
la chiesa, perché era per il cervello – conclude Burberi –. Il
tempo è un dono di Dio e non va sciupato, ci insegnava», mettendo
loro in mano una grande responsabilità: la loro vita, il loro
futuro.
Ci fu un tempo in cui, per sapere, si studiava.
RispondiEliminaCome sempre accadde, guardarsi indietro offre ottimi esempi a cui ispirarsi per non perdere il lume della ragione al tempo della post-verità. Se poi sono scritti come sai fare tu... Potere alla parola!