Ascoltandolo par di
rivivere atmosfere medievali o le grandi battaglie che sconvolsero
l'Europa nell'età moderna. Studioso che sa farsi leggere – nei
suoi saggi come nei romanzi – ma che sa anche affascinare il
pubblico dei festival culturali o dei programmi televisivi, lo
storico piemontese Alessandro Barbero, venerdì 11 dicembre, era a Verona, alla Società Letteraria, ospite dell'Istituto per la
Storia della Resistenza e dell'età contemporanea. Con la conferenza
Waterloo, i duecento anni della battaglia che ha cambiato l'Europa
ha fatto calare gli ascoltatori nella campagna della Vallonia, al 18
giugno del 1815, quando la sconfitta di Napoleone contro gli eserciti
della settima coalizione, guidati dall'inglese duca di Wellington e
dal feldmaresciallo prussiano von Blücher, preludio dell'esilio a
Sant'Elena, si scolpì nella Storia.
Professor
Barbero, perché Waterloo traccia una linea di demarcazione nella
storia europea?
A Waterloo si
materializza un paradosso. Nell'Europa di fine Settecento si vive la
contraddizione di aver avuto una rivoluzione francese – forza
travolgente trionfante che detta il futuro e cambia la storia del
mondo – accompagnata da uno dei ricorrenti tentativi di egemonia
imperiale sul continente, stavolta avanzato dall'impero napoleonico.
Ebbene, il paradosso è che il tentativo egemonico, nato nel Paese
della Rivoluzione, viene bloccato dall'unico Stato, l'Inghilterra,
che non conosce la Rivoluzione ed è per questo un paese arretrato e
arcaico dal punto di vista legislativo, sociale, di costume, pur
essendo il più moderno tecnologicamente. L'esercito inglese
rappresenta una società antiquata: un soldato semplice quasi mai è
promosso a ufficiale e il duca di Wellington, come tanti, fa carriera
militare comprandosi i gradi. L'esercito di Napoleone è invece il
più moderno del mondo: i tre quarti degli ufficiali sono soldati
semplici promossi col merito, e ciascuno si è fatto da sé. Eppure a
Waterloo vince l'arcaico. È un momento cruciale e contraddittorio.
Quasi una conferma del
processo di Restaurazione in corso che tenta di cancellare la
Rivoluzione?
Certo, Waterloo riporta
indietro l'orologio. Nei trent'anni di Restaurazione la vita di
intere generazioni è trasformata in maniera decisiva. I valori
liberali della Rivoluzione sono rigettati indietro e serviranno, per
recuperarli, un'altra intera generazione e altre rivoluzioni, del '30
e del '48, che non ci sarebbero state.
Cosa ci dice Waterloo
200 anni dopo?
Ci dice che la storia è
intessuta di contraddizioni. E che quando la si studia, non si deve
mai parteggiare né cercare chi ha ragione e chi torto. Altrimenti
non si capiscono quegli uomini. Tutti coloro che hanno combattuto a
Waterloo erano convinti, da entrambi i lati, di combattere contro i
tiranni per la libertà. Col risultato di ventimila morti in un
giorno, su un fronte di appena quattro chilometri. Waterloo è il
simbolo della meraviglia e della tragedia di questo continente.
L'Europa ha creato qualcosa di grandioso, ma l'ha fatto al tempo
stesso nel sangue e nella violenza.
Giocando con la
storia, cosa sarebbe accaduto se Napoleone avesse vinto?
Forse sarebbero arrivati
gli austriaci e i russi, e avrebbe perso comunque. Ma se avesse
vinto, beh, per una trentina d'anni ci sarebbe stato un mondo
diverso. L'Italia sarebbe uscita prima dall'arcaismo senza bisogno
del grande momento di riscatto del Risorgimento. Avrebbe avuto Stati
più moderni, non ci sarebbero stati Mazzini e la carboneria. Sarebbe
rimasto Gioacchino Murat al posto dei Borboni e il Regno di Napoli
sarebbe stato modernizzato. Quello dei Savoia sarebbe stato più
liberale. Non ci sarebbero stati i moti del '30 e del '48, ma poi le
spinte sotterranee, attorno al 1850, avrebbero riportato la storia
nella stessa direzione di quanto accaduto in seguito.
Quanto dobbiamo oggi a
Napoleone, nel bene e nel male?
Tantissimo. Certo, era un
avventuriero, arrivista, tiranno e traditore – in parte – degli
ideali della rivoluzione portati dai suoi soldati sulla punta delle
baionette. Rubava opere d'arte e reprimeva le opposizioni. Ma,
laddove sono arrivati i francesi, sono arrivate idee nuove di
uguaglianza tra cittadini e tra religioni, e di giustizia per tutti;
e tribunali, scuole, licei, università, un'amministrazione
centralizzata e le elezioni, anche se truccate. Tutti questi aspetti
risvegliarono l'Europa. Guai se non ci fossero stati.
Proprio la Francia
delle libertà e dell'uguaglianza si chiude oggi, quasi snaturandosi,
per effetto del terrorismo. Questo perché la storia non ci ha detto
abbastanza?
La storia non ha risposte
pronte, è caotica, non ha leggi. Vi confluiscono tutte le vite; non
dà ricette, ma esempi e indizi che aiutano a capire cosa è meglio o
peggio fare. I valori che la Francia incarna ce li siamo inventati
noi, nella nostra civiltà, e quando li portiamo agli altri, senza
pensare se le altre civiltà siano in un momento adatto per
riceverli, sbagliamo. E poi occorrono secoli per venirne fuori.
Questo ci insegna la storia. Guardiamo ai neri d'America: un secolo e
mezzo fa è finita la schiavitù, eppure è un problema in parte
irrisolto. Oggi ci accorgiamo che non basta accogliere gli immigrati
e che quello che ci sembra il massimo – la Francia che dice agli
algerini «Voi siete cittadini francesi» – non è sufficiente. Ma
cosa si debba fare, certamente non lo sa lo storico.
Il Barbero romanziere,
invece, come nasce?
Dalla passione, nata fin
da ragazzino, per Napoleone (il mio primo romanzo, del 1995,
Bella vita e guerre
altrui di Mr Pyle, gentiluomo,
è ambientato in quell'epoca) e per la storia militare. Ho
sempre raccolto molto materiale, che non potevo usare perché di
mestiere mi occupo di Medioevo. Così ho pensato potesse diventare
romanzo.
Di cosa parla il suo
ultimo, Le Ateniesi?
Della democrazia
dell'Atene classica, messa in pericolo dai colpi di Stato, e della
violenza maschile sulla donna in una società, quella della Grecia
antica, maschilista, ma che al tempo stesso immagina, come nella
Lisistrata di Aristofane, che le donne prendano il potere. Nel
romanzo si intrecciano tutti questi temi.
Oggi grazie a festival
e tv lo storico è una figura popolare. È un nuovo corso dell'Italia
verso la cultura?
Lo storico ora ha un suo
pubblico, non solo di lettori, ma ampliato da festival, conferenze e
tv. C'è un rapporto diretto col pubblico che può sentir parlare lo
storico oltre che leggerlo. È una bella sfida per chi fa il nostro
mestiere. Ma rimane un fenomeno limitato: Rai storia fa centomila
spettatori, una piccola percentuale sulla grande platea televisiva.
(da L'Arena, 11 dicembre 2015)
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