2 novembre 2015

L'Italia senza meta. Intervista a Emilio Gentile

«L'Italia sta affrontando una lunga transizione senza meta», ma, senza pessimismi, resta un fenomeno da osservare e comprendere con realismo. È il compito dello storico, secondo Emilio Gentile, professore emerito dell'università La Sapienza di Roma. Teorico dell'Italia «senza padri», massimo esperto della storia del Fascismo e storico italiano più tradotto all'estero, è stato di recente a Verona, ospite dell'Istituto per la Storia della Resistenza e dell'età contemporanea di Verona.
L'occasione era la presentazione del suo ultimo volume, Mussolini socialista (Laterza, 2015), curato con Spencer Di Scala (University of Massachusetts), anch'egli presente con Stefano Biguzzi, presidente dell'Istituto veronese e autore di uno dei saggi contenuti nel volume. Con i contributi anche di Pierluigi Allotti, Marco Gervasoni, Charles Killinger e Simone Visconti, Mussolini socialista indaga la figura del Duce prima del Ventennio, nel suo pieno socialismo rivoluzionario immune dai germi del fascismo.
Professor Gentile, quale esigenza ha condotto a un nuovo libro su Mussolini?
L'esigenza di parlare di Mussolini prima che diventasse Duce, perché fu una figura importante nel socialismo italiano ed europeo: condizionò molto il partito dal 1912, come direttore dell'Avanti e capo prestigioso della frazione rivoluzionaria; fino al novembre 1914 quando fu espulso per aver scelto l’interventismo. Occorreva restituirgli la sua autonomia: nelle interpretazioni storiografiche di Mussolini si tende a vedere gli embrioni del fascismo sin dal periodo socialista. Ma è storicamente errato. Mussolini è prima socialista e poi fascista, come Paolo di Tarso fu prima persecutore dei cristiani e poi cristiano.
Perché un volume a più mani?
Per proporre il Mussolini socialista con approcci di storici stranieri e di nuove generazioni non coinvolti nelle polemiche storiografiche degli anni Sessanta e Settanta, specialmente in Italia, che hanno potuto avvalersi del progresso delle conoscenze degli ultimi quarant'anni, alle quali noi storici anziani abbiamo contribuito.
Quale centralità ha Mussolini per comprendere il '900?
È il primo dittatore ad aver creato il culto della personalità da vivo e oggi ci aiuta a capire il fenomeno del capo dominatore che ha capacità di calamitare le masse.
Lei ha collaborato con Renzo De Felice. Resta il pilastro della storiografia mussoliniana o ha aspetti datati?
Da lui ho imparato molto, ma ho elaborato anche interpretazioni del fascismo che andavano oltre il suo contributo e lo stesso De Felice le ha pubblicate sulla sua rivista. Il primo volume della sua biografia di Mussolini, del 1965, ha proposto un’interpretazione del Mussolini socialista che ha aperto la strada alle ricerche successive. Tutta la sua opera storiografica rimane una grande impresa culturale. E gran parte di essa è un’acquisizione per sempre e per tutti gli storici che amano la conoscenza del passato più delle proprie opinioni sul passato.
A proposito di passato, prima i 150 anni dell'Unità d'Italia, oggi gli anniversari del '15 e del '45. Come vede queste commemorazioni?
Per il centocinquantesimo ci fu una larga partecipazione emotiva, ma si dissolse poco dopo, col prevalere di una realtà che mostra gravi lacerazioni e carenze nel senso dello Stato e della nazione, come anche nel senso civico, sul quale sembra prevalere piuttosto un senso cinico. La commemorazione della Grande guerra mi sembra coinvolga meno emotivamente e più per la curiosità della conoscenza. Del resto, è difficile celebrare un conflitto. La Grande guerra è stata una grande carneficina, seguita dall’era dei totalitarismi, dei genocidi, degli stermini di massa che dal Novecento sono proseguiti fino ai nostri giorni. L’anniversario del 1945, invece, non ha suscitato larga partecipazione: forse troppi anniversari distolgono l’attenzione.
Storici e insegnanti che ruolo hanno?
Storici e insegnanti cerchino la verità con umiltà e senza la presunzione di averla trovata. Ci si abitua alla comprensione dell’altro e del diverso attraverso la storia. Così si creano menti critiche e autonome. E sulla comprensione dell'altro e persino degli opposti a noi, si fonda una democrazia vera e non recitativa. Per comprendere un fatto storico occorre capire chi erano gli uomini protagonisti e come agivano: governanti e governati, capi e masse, vittime e carnefici.
L'Italia di oggi assomiglia a quella di un altro periodo del Novecento?
No. Non si possono fare raffronti perché l'Italia vive un'esperienza continuamente nuova, non avendo mai risolto il problema di cosa è Stato e cosa Nazione. Sta affrontando una lunga transizione senza meta. Ci sono molti aspetti e fenomeni nuovi da capire.
Un esempio?
Il fenomeno della revisione dell'assetto istituzionale del Paese che avviene in forma improvvisata e non ci si rende conto che sarà lo strumento col quale condurre lo Stato democratico. Un'altra esperienza nuova è quella che viviamo dal 2011: abbiamo avuto una serie di governi nominati dal presidente della Repubblica e un premier capo del Governo non perché eletto, ma in quanto segretario del maggior partito. Ci sono tanti aspetti nuovi. Dove ci porteranno? Non lo so. Non sappiamo dove stiamo andando.
Ma l'Italia non ha speranze?
Il mio è un pensiero realista, non pessimista. Realismo è capire come stanno le cose e i fatti. La speranza c'è sempre e si dice sia l'ultima a morire. Può essere, purché non la si ammazzi prima. E in genere ad ammazzarla è l'ottimismo sciocco.
Nei suoi volumi definisce l'Italia «senza padri» e «senza meta». C'è un vuoto di classe dirigente oggi? Sono motivate le nostalgie per figure come De Gasperi o Moro?
Anche con De Gasperi e Moro gli italiani che non votavano per il loro partito furono molto critici. Non hanno senso le nostalgie. Viviamo esperienze nuove e dobbiamo affrontarle con categorie nuove. Ma è una crisi che riguarda anche altri paesi come Gran Bretagna e Spagna, ad esempio, che hanno avuto una plurisecolare tradizione unitaria attraverso un potere politico accentratore. La crisi dello stato nazionale nel definire la cittadinanza è un problema che investe tutte le democrazie. L'Italia, dicevo, affronta una lunga transizione senza meta. Si dice sia finita la prima repubblica e in realtà non abbiamo mai saputo quando è iniziata una seconda, e qualcuno parla già della terza. Ma abbiamo avuto una sola costituzione della Repubblica attraverso la Costituente del 1946 che scrisse una carta che doveva diventare costume civico e politico condiviso.
E invece non è stata applicata?
Non come avrebbe dovuto esserlo. Partiamo dal primo articolo: l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Quindi i giovani disoccupati non godono della piena cittadinanza nella Repubblica italiana. E non si crea realtà e senso della cittadinanza se non si attua il primo articolo della Costituzione.

Maria Vittoria Adami
(Da L'Arena, domenica 25 ottobre)

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