«L'Italia
sta affrontando una lunga transizione senza meta», ma, senza
pessimismi, resta un fenomeno da osservare e comprendere con
realismo. È il compito dello storico, secondo Emilio Gentile,
professore emerito dell'università La Sapienza di Roma. Teorico
dell'Italia «senza padri», massimo esperto della storia del
Fascismo e storico italiano più tradotto all'estero, è stato di recente a Verona, ospite
dell'Istituto per la Storia della Resistenza e dell'età
contemporanea di Verona.
L'occasione era la presentazione del suo
ultimo volume, Mussolini
socialista (Laterza,
2015), curato con Spencer Di Scala (University of Massachusetts),
anch'egli presente con Stefano Biguzzi, presidente dell'Istituto
veronese e autore di uno dei saggi contenuti nel volume. Con i
contributi anche di Pierluigi Allotti, Marco Gervasoni, Charles
Killinger e Simone Visconti, Mussolini
socialista indaga la
figura del Duce prima del Ventennio, nel suo pieno socialismo
rivoluzionario immune dai germi del fascismo.
Professor Gentile,
quale esigenza ha condotto a un nuovo libro su Mussolini?
L'esigenza di parlare di
Mussolini prima che diventasse Duce, perché fu una figura importante
nel socialismo italiano ed europeo: condizionò molto il partito dal
1912, come direttore dell'Avanti e capo prestigioso della frazione
rivoluzionaria; fino al novembre 1914 quando fu espulso per aver
scelto l’interventismo. Occorreva restituirgli la sua autonomia:
nelle interpretazioni storiografiche di Mussolini si tende a vedere
gli embrioni del fascismo sin dal periodo socialista. Ma è
storicamente errato. Mussolini è prima socialista e poi fascista,
come Paolo di Tarso fu prima persecutore dei cristiani e poi
cristiano.
Perché un volume a
più mani?
Per proporre il Mussolini
socialista con approcci di storici stranieri e di nuove generazioni
non coinvolti nelle polemiche storiografiche degli anni Sessanta e
Settanta, specialmente in Italia, che hanno potuto avvalersi del
progresso delle conoscenze degli ultimi quarant'anni, alle quali noi
storici anziani abbiamo contribuito.
Quale centralità ha
Mussolini per comprendere il '900?
È il primo dittatore ad
aver creato il culto della personalità da vivo e oggi ci aiuta a
capire il fenomeno del capo dominatore che ha capacità di calamitare
le masse.
Lei ha collaborato con
Renzo De Felice. Resta il pilastro della storiografia mussoliniana o
ha aspetti datati?
Da lui ho imparato molto,
ma ho elaborato anche interpretazioni del fascismo che andavano
oltre il suo contributo e lo stesso De Felice le ha pubblicate sulla
sua rivista. Il primo volume della sua biografia di Mussolini, del
1965, ha proposto un’interpretazione del Mussolini socialista che
ha aperto la strada alle ricerche successive. Tutta la sua opera
storiografica rimane una grande impresa culturale. E gran parte di
essa è un’acquisizione per sempre e per tutti gli storici che
amano la conoscenza del passato più delle proprie opinioni sul
passato.
A proposito di
passato, prima i 150 anni dell'Unità d'Italia, oggi gli anniversari
del '15 e del '45. Come vede queste commemorazioni?
Per il centocinquantesimo
ci fu una larga partecipazione emotiva, ma si dissolse poco dopo, col
prevalere di una realtà che mostra gravi lacerazioni e carenze nel
senso dello Stato e della nazione, come anche nel senso civico, sul
quale sembra prevalere piuttosto un senso cinico. La commemorazione
della Grande guerra mi sembra coinvolga meno emotivamente e più per
la curiosità della conoscenza. Del resto, è difficile celebrare un
conflitto. La Grande guerra è stata una grande carneficina, seguita
dall’era dei totalitarismi, dei genocidi, degli stermini di massa
che dal Novecento sono proseguiti fino ai nostri giorni.
L’anniversario del 1945, invece, non ha suscitato larga
partecipazione: forse troppi anniversari distolgono l’attenzione.
Storici e insegnanti
che ruolo hanno?
Storici e insegnanti
cerchino la verità con umiltà e senza la presunzione di averla
trovata. Ci si abitua alla comprensione dell’altro e del diverso
attraverso la storia. Così si creano menti critiche e autonome. E
sulla comprensione dell'altro e persino degli opposti a noi, si fonda
una democrazia vera e non recitativa. Per comprendere un fatto
storico occorre capire chi erano gli uomini protagonisti e come
agivano: governanti e governati, capi e masse, vittime e carnefici.
L'Italia di oggi
assomiglia a quella di un altro periodo del Novecento?
No. Non si possono fare
raffronti perché l'Italia vive un'esperienza continuamente nuova,
non avendo mai risolto il problema di cosa è Stato e cosa Nazione.
Sta affrontando una lunga transizione senza meta. Ci sono molti
aspetti e fenomeni nuovi da capire.
Un esempio?
Il fenomeno della
revisione dell'assetto istituzionale del Paese che avviene in forma
improvvisata e non ci si rende conto che sarà lo strumento col quale
condurre lo Stato democratico. Un'altra esperienza nuova è quella
che viviamo dal 2011: abbiamo avuto una serie di governi nominati dal
presidente della Repubblica e un premier capo del Governo non perché
eletto, ma in quanto segretario del maggior partito. Ci sono tanti
aspetti nuovi. Dove ci porteranno? Non lo so. Non sappiamo dove
stiamo andando.
Ma l'Italia non ha
speranze?
Il mio è un pensiero
realista, non pessimista. Realismo è capire come stanno le cose e i
fatti. La speranza c'è sempre e si dice sia l'ultima a morire. Può
essere, purché non la si ammazzi prima. E in genere ad ammazzarla è
l'ottimismo sciocco.
Nei suoi volumi
definisce l'Italia «senza padri» e «senza meta». C'è un vuoto di
classe dirigente oggi? Sono motivate le nostalgie per figure come De
Gasperi o Moro?
Anche con De Gasperi e
Moro gli italiani che non votavano per il loro partito furono molto
critici. Non hanno senso le nostalgie. Viviamo esperienze nuove e
dobbiamo affrontarle con categorie nuove. Ma è una crisi che
riguarda anche altri paesi come Gran Bretagna e Spagna, ad esempio,
che hanno avuto una plurisecolare tradizione unitaria attraverso un
potere politico accentratore. La crisi dello stato nazionale nel
definire la cittadinanza è un problema che investe tutte le
democrazie. L'Italia, dicevo, affronta una lunga transizione senza
meta. Si dice sia finita la prima repubblica e in realtà non abbiamo
mai saputo quando è iniziata una seconda, e qualcuno parla già
della terza. Ma abbiamo avuto una sola costituzione della Repubblica
attraverso la Costituente del 1946 che scrisse una carta che doveva
diventare costume civico e politico condiviso.
E invece non è stata
applicata?
Non come avrebbe dovuto
esserlo. Partiamo dal primo articolo: l'Italia è una Repubblica
fondata sul lavoro. Quindi i giovani disoccupati non godono della
piena cittadinanza nella Repubblica italiana. E non si crea realtà e
senso della cittadinanza se non si attua il primo articolo della
Costituzione.
Maria Vittoria Adami
(Da L'Arena, domenica 25 ottobre)
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