La
Russia ha votato «No» alla risoluzione del Consiglio di sicurezza
dell'Onu che condanna il massacro di Srebrenica e che è considerata
dalla Serbia un'umiliazione. Ha bloccato così l'adozione della
risoluzione, negando il genocidio. Un ritorno indietro di oltre dieci
anni: nel 2004 il Tribunale penale internazionale per i crimini di
guerra della Ex Yugoslavia (IctY) riconosce, per il massacro di
Srebrenica, la parola «Genocidio».
Lo fa anche la Corte
internazionale di giustizia. Cinque ufficiali serbo-bosniaci, per
questo, sono stati condannati e sono in corso i processi dell'IctY a
Radovan Karadžic, ex leader serbo-bosniaco, e al suo generale Ratko
Mladić. Eppure, non si parla di genocidio in Serbia e tra i
serbo-bosniaci che lo definiscono un'invenzione. La chiesa ortodossa,
l'11 luglio, celebra il Festival della luce, commemorando alcuni
serbi caduti per mano bosniaca nel '92. Si respira divisione a
Srebrenica, dove le donne incontrano ostacoli per commemorare i loro
morti.
«Non
fu genocidio», si dice in Serbia. Eppure l'assassinio di 8.372
persone non si improvvisa. La giornalista Azra Nuhefendic in un
recente contributo per il «Dossier Srebrenica» pubblicato
dall'Osservatorio Balcani Caucaso, spiega che non lo si può definire
un «crimine accidentale»: «Il genocidio non è un’azione
spontanea. È un progetto ben pianificato, organizzato e realizzato
sistematicamente. C'è voluta una grande organizzazione per
ammazzare, in una settimana, ottomila persone, scavare le fosse
comuni, seppellire, e dopo riesumare i corpi e sotterrarli di nuovo
in una seconda e in una terza fossa. Non è un lavoro per dilettanti.
Il negazionismo è diventato una strategia di Stato. Negando la colpa
si continua a provocare dolore alle vittime. Non a caso il
negazionismo è considerato l’ultima fase del genocidio».
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