19 febbraio 2015

Gli italiani «austriaci», in Galizia, raccontati da Rumiz


(L'Arena, 18 febbraio 2015). Per loro, la guerra cominciò prima. Per i centomila soldati trentini e giuliani che indossarono la «montura», la divisa austroungarica, la partenza per il fronte arrivò un anno in anticipo, nell'agosto del 1914. Meta: la Galizia, frontiera orientale tra l'Austria-Ungheria e l'impero dei Romanov, oggi compresa tra Polonia e Ucraina.
Lasciarono la casa in terra asburgica, vi tornarono che erano italiani, a guerra finita e, alcuni, dopo anni di prigionia in Siberia. Ma non furono accolti a braccia aperte da un Paese che non intendeva (furono diffuse precise informative) commemorare gesta e caduti di ex-nemici.
È poco conosciuta la storia degli italiani delle terre irredente (annesse proprio con la prima guerra mondiale), sudditi dell'Austria-Ungheria e arruolati sotto la bandiera giallonera, per i quali la Galizia fu il Carso dei soldati in grigioverde.
«Come cavalli che dormono in piedi» (Feltrinelli, 2014) il volume di Paolo Rumiz, editorialista di «Repubblica», che stasera sarà a Sommacampagna, muove proprio dai desiderio-dovere di ricordare questa storia non narrata: le vicende degli italiani dell'esercito asburgico che mossero verso il fronte russo quando ancora ci si illudeva che il conflitto sarebbe finito «prima che le foglie cadano». Non fu così. Ma la pandemia belligerante si espanse in tutta Europa consolidando un'epopea su luoghi simbolo dalla Marna a Verdun, per il fronte occidentale, e (dal 1915) dal Carso al Piave, dagli altipiani vicentini alla Vallarsa, sul fronte italiano. Quello orientale, schiacciato dalla gloria di questi nomi e chiuso dallo scoppio della rivoluzione d'ottobre (nel 1917, deposti i Romanov, la Russia si ritirò dal conflitto), scivolò nell'oblio.
Rumiz parte da qui. Dal non voler negare spessore monumentale alla memoria di chi soffrì, come gli altri soldati, il «gelo di inverni senza riparo», col «terrore del galoppo dei cosacchi e delle armate dello zar». «Alla notte di morti manca una cosa», scrive. «Mancano i triestini, gli istriani e gli altri figli delle terre conquistate dall'Italia. Non i Battisti, i Filzi, gli Slataper o i Sauro celebrati con piazze, monumenti, strade, scuole e rifugi alpini. Non loro, gli arditi che hanno scelto di combattere col Tricolore: ma gli altri, cento volte più numerosi, coloro che, prima che essere ribattezzati “italianissimi” sono stati “nemici”. I nostri vecchi andati in guerra, “fṻr Kaiser und Vaterland”», che non cantano Il testamento del capitano, ma marcette della Stiria.
Apre il volume, e il percorso di rimozione dell'oblio, una foto. È quella del nonno del giornalista triestino: Ferruccio Pitacco, in «montura», a Lublino (oggi in Polonia), nel 1916, dove combatté contro un reggimento di circassi, abili lanciatori di coltello, e dove gli ufficiali tedeschi storpiavano il suo nome in Pittàco: «Ma lui non tentava di correggerli, perché con un fratello irredentista era meglio far finta di niente».
«Solo i trentini e i triestini, con i goriziani, gli istriani e i dalmati, sono morti così lontano da casa. Italiani “sbagliati”, nati sotto l'Austria Ungheria». Così Rumiz «va dai centomila». Riesuma la loro storia che va narrata non con discorsi sotto l'alzabandiera, ma andando sui luoghi per percepire là ciò che è stato: «Non ne possono più, i Centomila, di stare schierati sull'attenti. Vogliono dormire. Maledicono i custodi dei sacelli, i ruffiani e imboscati che vengono qui a tenere discorsi (a Redipuglia, ndr), gli stessi arroganti, ruffiani e imboscati che hanno consentito Caporetto e oggi affondano l'Italia. Vorrebbero tornare alla pace della terra, in piccoli cimiteri, simili a quelli dei Vinti, esonerati dall'obbligo della retorica».
E di questo esercito senza lapidi e monumenti (dei quali canta anche l'accorata ballata popolare Monti Scarpazi) recupera la memoria il Trentino. Alle gallerie di Piedicastello è aperta la mostra, a cura di Quinto Antonelli, «I Trentini nella guerra europea 1914-1920», della fondazione Museo storico del Trentino. Il percorso, tra fotografie, cartoline illustrate, disegni conservati nei diari personali o di pittori, manoscritti, oggetti, dispiega la grande mappa multinazionale e plurilingue dei territori varcati dai trentini: dall'Italia alla Boemia, dalla Galizia alla Siberia, persino la Cina, toccata dai prigionieri sulla via del rientro. Fuorusciti, profughi, internati, combattenti per gli austriaci o volontari nell'esercito italiano, il loro campo di battaglia ebbe un vastissimo scenario, delimitato per molti dalla lunga prigionia in terra «bolscevica», della quale parlano diari e poesie, fotografie e disegni, quadri, cartoline e oggetti che là i prigionieri collezionarono.
Maria Vittoria Adami

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