(L'Arena, 18 febbraio 2015). Per
loro, la guerra cominciò prima. Per i centomila soldati trentini e
giuliani che indossarono la «montura», la divisa austroungarica, la
partenza per il fronte arrivò un anno in anticipo, nell'agosto del
1914. Meta: la Galizia, frontiera orientale tra l'Austria-Ungheria e
l'impero dei Romanov, oggi compresa tra Polonia e Ucraina.
Lasciarono
la casa in terra asburgica, vi tornarono che erano italiani, a guerra
finita e, alcuni, dopo anni di prigionia in Siberia. Ma non furono
accolti a braccia aperte da un Paese che non intendeva (furono
diffuse precise informative) commemorare gesta e caduti di ex-nemici.
È
poco conosciuta la storia degli italiani delle terre irredente
(annesse proprio con la prima guerra mondiale), sudditi
dell'Austria-Ungheria e arruolati sotto la bandiera giallonera,
per i quali la Galizia fu
il Carso dei soldati in grigioverde.
«Come
cavalli che dormono in piedi» (Feltrinelli, 2014) il volume di
Paolo Rumiz, editorialista di «Repubblica», che stasera sarà a
Sommacampagna, muove proprio dai desiderio-dovere di ricordare questa
storia non narrata: le vicende degli italiani dell'esercito asburgico
che mossero verso il fronte russo quando ancora ci si illudeva che il
conflitto sarebbe finito «prima che le foglie cadano». Non fu così.
Ma la pandemia belligerante si espanse in tutta Europa consolidando
un'epopea su luoghi simbolo dalla Marna a Verdun, per il fronte
occidentale, e (dal 1915) dal Carso al Piave, dagli altipiani
vicentini alla Vallarsa, sul fronte italiano. Quello orientale,
schiacciato dalla gloria di questi nomi e chiuso dallo scoppio della
rivoluzione d'ottobre (nel 1917, deposti i Romanov,
la Russia si ritirò dal
conflitto), scivolò nell'oblio.
Rumiz
parte da qui. Dal non voler negare spessore monumentale alla memoria
di chi soffrì, come gli altri soldati, il «gelo di inverni senza
riparo», col «terrore del galoppo dei cosacchi e delle armate dello
zar». «Alla notte di morti manca una cosa», scrive. «Mancano i
triestini, gli istriani e gli altri figli delle terre conquistate
dall'Italia. Non i Battisti, i Filzi, gli Slataper o i Sauro
celebrati con piazze, monumenti, strade, scuole e rifugi alpini. Non
loro, gli arditi che hanno scelto di combattere col Tricolore: ma gli
altri, cento volte più numerosi, coloro che, prima che essere
ribattezzati “italianissimi” sono stati “nemici”. I nostri
vecchi andati in guerra, “fṻr
Kaiser und Vaterland”», che non cantano Il
testamento del capitano, ma
marcette della Stiria.
Apre
il volume, e il percorso di rimozione dell'oblio, una foto. È quella
del nonno del giornalista triestino: Ferruccio Pitacco, in «montura»,
a Lublino
(oggi in Polonia), nel
1916, dove combatté contro un reggimento di circassi, abili
lanciatori di coltello, e dove gli ufficiali tedeschi storpiavano il
suo nome in Pittàco: «Ma lui non tentava di correggerli, perché
con un fratello irredentista era meglio far finta di niente».
«Solo
i trentini e i triestini, con i goriziani, gli istriani e i dalmati,
sono morti così lontano da casa. Italiani “sbagliati”, nati
sotto l'Austria Ungheria». Così Rumiz «va dai centomila». Riesuma
la loro storia che va narrata non con discorsi sotto l'alzabandiera,
ma andando sui luoghi per percepire là ciò che è stato: «Non ne
possono più, i Centomila, di stare schierati sull'attenti. Vogliono
dormire. Maledicono i custodi dei sacelli, i ruffiani e imboscati che
vengono qui a tenere discorsi (a Redipuglia, ndr), gli stessi
arroganti, ruffiani e imboscati che hanno consentito Caporetto e oggi
affondano l'Italia. Vorrebbero tornare alla pace della terra, in
piccoli cimiteri, simili a quelli dei Vinti, esonerati dall'obbligo
della retorica».
E
di questo esercito senza lapidi e monumenti (dei quali canta anche
l'accorata ballata popolare Monti
Scarpazi) recupera la
memoria il Trentino. Alle gallerie di Piedicastello è aperta la
mostra, a cura di Quinto Antonelli, «I Trentini nella guerra europea
1914-1920», della fondazione Museo storico del Trentino. Il
percorso, tra fotografie, cartoline illustrate, disegni conservati
nei diari personali o di pittori, manoscritti, oggetti, dispiega la
grande mappa multinazionale e plurilingue dei territori varcati dai
trentini: dall'Italia alla Boemia, dalla Galizia alla Siberia,
persino la Cina, toccata dai prigionieri sulla via del rientro.
Fuorusciti, profughi, internati, combattenti per gli austriaci o
volontari nell'esercito italiano, il loro campo di battaglia ebbe un
vastissimo scenario, delimitato per molti dalla lunga prigionia in
terra «bolscevica», della quale parlano diari e poesie, fotografie
e disegni, quadri, cartoline e oggetti che là i prigionieri
collezionarono.
Maria Vittoria Adami
Maria Vittoria Adami
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