«Cara mamma, non è vero che si
combatte per la nuova civiltà, che anche il nostro esercito civile
ha fatto delle cose che il buon Dio non l'ha mai predicato». La
calligrafia scorre veloce nella lettera di Oreste De Angelis, soldato
beneventano, che scrive alla madre dalla «casa di salute di Verona».
È il 29 luglio 1917 e si trova al manicomio provinciale di San
Giacomo di Tomba.
Qui, dove oggi sorge il policlinico
«G.B.Rossi» di Borgo Roma, tra il 1915 e il 1918, furono ricoverati
679 soldati come Oreste, scesi dalle trincee della Grande Guerra e
mandati in osservazione dall'ospedale militare di Verona: avevano
dato segni di cedimento nervoso e bisognava valutare se fossero
simulatori o vittime di quello stato psichico che ancora non si
definiva «nevrosi di guerra».
Il primo conflitto mondiale si distinse
per la modernità degli armamenti, potenti e avanzati, che produssero
effetti sconcertanti e imprevisti, a cominciare dai corpi straziati
e mutilati da esplosioni e bombardamenti, coi quali i soldati
convivevano giorno e notte, nel tanfo della trincea e coi lamenti di
moribondi, tra rumori assordanti di artiglieria e bagliori accecanti.
In quella realtà di squilibrio
sensoriale e di sovvertimento dei valori, scoccò, per alcuni, la
scintilla della follia che arruolò un piccolo esercito di feriti non
nel corpo, ma nella mente. Impazziti, li chiamarono «Scemi di
guerra», e tra il '15 e il '22 ne arrivarono 1065 al San Giacomo,
diretto allora da Umberto Meneghetti. Li curò il dottor Aleardo
Salerni, che già si era occupato, negandolo, del rapporto tra guerra
e follia durante il conflitto di Libia del 1911.
Le cartelle cliniche, custodite oggi
nella biblioteca di psichiatria in Borgo Roma, raccontano attraverso
nosografie, anamnesi, lettere e disegni dei soldati, lo stato d'animo
dei giovani scesi dalle trincee del Trentino e degli Altipiani
vicentini in stato catatonico, silenziosi, con gli occhi fissi su
scene di guerra che non sapevano descrivere: «Si presenta in
atteggiamento quasi cascante, tiene il capo basso non parla non
reagisce», si legge nelle anamnesi. Ora irascibili e confusi, ora
allucinati: «Vede austriaci di fianco al letto»; «Fa il gesto di
gettar bombe e di andare all'assalto della baionetta»; «Ripete in
continuazione: se lo vedo sparo»; «Sente odore di gas, rumori di
armi. Vede i compagni morti»; «Piange in continuazione».
Stanchi e con la voglia di star soli,
dopo mesi di convivenza forzata, furono ricoverati depressi,
malinconici, feriti e autolesionisti, imputati per diserzione o
insubordinazione, simulatori, tra i 18 e i 44 anni, la maggior parte
di 20-22. I giovani erano più inclini all'aggressività, con
ribellione e scatti violenti improvvisi, conseguenti in genere a
punizioni o reclusioni. Più pacati e affranti gli «anziani», il
cui pensiero della famiglia a casa frenava reazioni spropositate e
acuiva lo sconforto.
I soldati componevano poesie,
disegnavano, scrivevano lettere alle famiglie (mai spedite),
appellandosi alla pace, riflettendo sulla guerra e progettando modi
per farla finire. Uno di loro disegnò una macchina, il Currus Aereo,
che doveva garantire la vittoria all'Italia. Schizzi derisori e
invettive furono riservati a superiori, istituzioni e persino al Re,
con motti d'odio per chi aveva impartito l'ordine di uccidere:
«Questi esseri cattivi», si legge in una lettera, «tengono in
pugno con tutta indifferenza un Cristo o un pugnale e, or abusando
della fedeltà e or del terrore, fanno camminare le cose sulla terra
secondo i loro gusti infernali. Veri indegni della vita, che non
possono stare impiedi se loro intorno una folla non soffre».
di Maria Vittoria Adami da L'Arena, 7 settembre 2014
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