11
luglio 2013, Sarajevo. È l'ultima notte qui, ma ho un'adrenalina in
corpo che non mi farà dormire. Samra gironzola per la stanza,
facendo zapping in Tv. Tutte le emittenti trasmettono resoconti della
giornata di oggi o film e storie che raccontano il massacro di Srebrenica. Dormiamo in un piccolo hotel –
qualche vicolo sopra la Baščaršija – che dà sul cimitero
all'ombra di un minareto. Samra scherza: «Mia zia direbbe che
abbiamo una vista sul futuro».
C'era
una luce metallica stasera a Sarajevo. Siamo arrivati al tramonto e
ho avuto poco tempo per vederla, ma Mario mi ha indicato tutto quello
che ha potuto e così, tra la mia avidità di memorizzare ogni
centimetro di marciapiede e i suoi ricordi di una visita fatta appena
un mese fa, siamo finiti al mercato. I banchi verdi ormai vuoti,
puliti e in ordine, raccontavano che la giornata era finita, ma
soprattutto che la vita è andata avanti. È andata avanti anche qui,
dove vent'anni fa morirono 67 persone, delle dodicimila
vittime di quasi quattro anni di assedio della città (dal 1992).
Ho
cercato questo posto. È il mio ricordo più vivo di ragazzina di
quella guerra che sembrava lontana e distava appena 900
chilometri. Mi sono soffermata sulla parete in plexiglas dal
fondo rosso, che delimita il mercato e riporta nomi e cognomi della strage di Markale. Ho frugato qua e là, finchè non si è
avvicinato un ragazzo. Stava pulendo i banchi e deve avermi letto nel
pensiero. Mi ha urlato qualcosa, con fare volenteroso, lanciando una
secchiata d'acqua a un metro da me, su una teca in vetro per terra.
L'ha pulita e asciugata, facendo il segno col dito su un pezzo di
mortaio conficcato nell'asfalto. È quello che il 5 febbraio del 1994
dalle colline attorno a Sarajevo si schiantò sulla gente al mercato.
Ho cercato di fare due chiacchiere, ma sono rimasta ammutolita.
È la
scacchiera di strade del centro storico che mi ha ammutolita. A ogni angolo si apre un rettilineo che dà dritto sulle colline, là,
dove le armi delle truppe serbe e di gruppi paramilitari erano
puntate sulla città e sui civili. E a ogni angolo mi son fermata con
un senso di inquietudine a guardare le traiettorie disegnate da
strade e palazzi che mirano dritte al cuore di Sarajevo. Ferma
davanti alla cattedrale cattolica quella sensazione mi ha tolto il
fiato. Sono giusta nel mirino, ho pensato. E nel cercare ciò che
resta delle Rose di Sarajevo mi sono accorta che ne avevo una proprio
sotto i piedi. Boom! Centrata.
I
buchi lasciati dai colpi sparati dalle colline sono stati riempiti di
vernice rossa. Sono le Rose di Sarajevo. Il tempo le ha sbiadite, ma
la sensazione opprimente che sguscia al sol pensiero di quei
cittadini sotto il fuoco o il tiro dei cecchini, in una guerra di
nervi e sfinimento, si percepisce ancora, almeno io la sento.
Continuando a camminare si trovano involucri di palazzi di primo
Novecento ancora da sistemare, edifici dalla firma asburgica
ristrutturati, segni d'Occidente e splendide atmosfere d'Oriente, foulard e lanternine colorate in serragli e cortili d'altri tempi.
Penso a questo crocevia di storia che porta nelle pietre l'Europa e
il Medio Oriente. Poi penso a Sarajevo e alla sua maledizione di
essere quasi vocata alla guerra. Qui, 99 anni fa, scoccò la
scintilla del primo conflitto mondiale. E i luoghi
vicini a quello dell'attentato all'arciduca Francesco Ferdinando, come la biblioteca nazionale, sono stati colpiti e incendiati,
durante gli anni dell'assedio. Guerra copre guerra.
Penso
al poco tempo che ho trascorso qui, con l'ansia di vedere il più
possibile e progettando già di tornare. Sistemo le mie cose nella
borsa, ricordando il cameriere del ristorante stizzito, che ci ha
rimproverato per tutto il tempo, a cena, mentre ci
consultavamo per il menù con Samra: «Voi italiani parlate sempre
tutti insieme e pretendete che si parli italiano dappertutto».
Mah... Punti di vista.
È
stata una giornata lunga. Sono stati giorni intensi e impegnativi,
eppure non dormirò presto. Ho viaggiato su un pulmino che ha
percorso tornanti e valli, seguendo fiumi, trapassando boschi. Ho
visitato luoghi incredibili, ascoltato persone e racconti senza
stancarmi. Ho dormito a 500 metri da un pianoro che culla nella sua
terra settemila morti. Ho visto intrecciarsi culture e volti diversi.
Ho passeggiato tra anziani, malati, disabili, matti e ragazzini. Ho
rincorso paesaggi bucolici con la Nikon, respirato il lutto di
generazioni di donne. Ho visto cosa può fare la brutalità umana, ma
anche la solidarietà, in una terra che dovrebbe candidarsi a nicchia
di pacificazione, ma racconta una storia ben diversa.
Ed
è qui, in questo luogo di lacerazioni, che sono arrivata con le mie
di fratture. Col peso di mesi di stretta al cuore e stanchezza, che
ora sembrano lontani, grazie a un viaggio senza tempo e senza spazio.
Ho seguito un richiamo, una spinta innata verso questi posti lontani,
sconosciuti, nascosti da chilometri di boschi e montagne. E ogni sera
mi sono addormentata con la pace nel cuore. Qui ho ripreso a scrivere
quello che vedo, trovando conferma ancora una volta che sempre a Est
ritorno. Sempre da Est viene il richiamo. Da Est viene il vento che
mi coglie di sorpresa in serate di tepore o in quelle fredde
invernali, dandomi la certezza di essere al mondo. A Est ho appagato
occhi e cuore oggi. A Est torno a dormire serena e non sento la
mancanza di nulla. Qui, dove le case portano i segni dei conflitti;
dove il dolore è sepolto sotto terra. Qui, in una terra lacerata
dalla guerra, ritrovo la mia pace.
Altre foto le trovi qui.
Mi sorprende e mi spaventa il fatto di non considerare le guerre per il solo fatto che non le stiamo vivendo. Anche se vicine, appaiono comunque distanti se non si vivono in prima persona. Non ci avevo mai pensato. Scrolliamo le spalle e diciamo "Tanto è là". O non ci interessiamo del dramma umano o non lo sappiamo comprendere. E forse visitare i luoghi o leggere le sensazioni di chi li ha visitati ci può aiutare a capire...
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