Emir
è un Bignami dei Balcani (*), ma quando gli dico che è un esempio di
pacificazione si fa serio e mi dice che non è così semplice. Quando
le persone, chiacchierando, gli chiedono quale sia la sua
nazionalità, risponde all'occorrenza.
Emir,
però, ha la Bosnia nel cuore. La sua passione nel difendere la
storia di questa terra lacerata è trascinante. Non dimentica mai di
apostrofare lo sterminio degli 8372 bosniaci musulmani a Srebrenica come «genocidio» e alla sera ascoltarlo
raccontare cosa accadde qui quando era all'incirca un ventenne è
coinvolgente.
«Srebrenica – dice – è una storia che si deve raccontare fuori di qui, in Europa, in tutto il mondo». Lo dicono ogni anno anche le «Madri di Srebrenica», memorie viventi di violenze inenarrabili scatenatesi quando all'improvviso scoprirono di «avere il nemico in casa» o di esserlo, il nemico.
«Srebrenica – dice – è una storia che si deve raccontare fuori di qui, in Europa, in tutto il mondo». Lo dicono ogni anno anche le «Madri di Srebrenica», memorie viventi di violenze inenarrabili scatenatesi quando all'improvviso scoprirono di «avere il nemico in casa» o di esserlo, il nemico.
L'importanza
del ricordo, qui, soprattutto in questi giorni di commemorazione (11 luglio), è
un tema caro: «L'Europa conosce il denaro, l'euro, l'oro,
l'economia, la politica, ma non conosce la disperazione di queste
madri – continua Emir –. Per questo è importante che i giovani
ne raccontino la storia. È una questione di verità e di giustizia.
Dicono che non fu genocidio. Ma un massacro di 8000 persone non si
improvvisa».
Emir
Murkic Kačapor fa parte del Forum
internazionale della solidarietà, l'Emmaus bosniaco, ed è referente
dell'Alleanza Franco Bettoli; è tornato da Washington in Bosnia per
accompagnarci in questi giorni (9-12 luglio 2013). Seguo una delegazione
di Emmaus Villafranca, in Bosnia per visitare il caseificio di Duje, alla realizzazione del quale ha partecipato. Abbiamo
dormito a Leptir, un centro che accoglie ragazze minorenni,
bosniache, ungheresi, russe... tolte dalla strada e indirizzate verso
una nuova vita. Dopo la visita del villaggio di Duje, per anziani non
autosufficienti, persone con problemi psichici, orfani e disabili,
siamo giunti al campo per giovani di Potočari:
una gruppetto di case a pochi metri dal memorial center,
dove Emmaus ospita ragazzi di tutta Europa proponendo loro campi di
lavoro di venti giorni.
Qui
passiamo l'ultima serata con Emir, impegnato in un progetto per far
studiare i bambini locali, che abitano a otto chilometri dalla scuola, in aperta campagna, e ai quali nessuno sembra interessarsi. Emmaus vuole dare loro una
formazione e aiutare l'evolversi di uno spirito critico,
sollevando così le coscienze e creando generazioni future che non
ripeteranno gli errori di quelle passate.
Ascoltare Emir è come fare
un tuffo nell'ex Jugoslavia di 18 anni fa e lì, a Potočari,
a poche centinaia di metri da migliaia di cippi di marmo bianco,
l'atmosfera si fa ancora più pesante. Ripenso alle parole di Leyla
(«Sentirete i morti a Potočari») e a quanto sono vere.
La fabbrica oggi è un memoriale |
Emir
fa un passo indietro di 18 anni. La fabbrica rugginosa qui vicino, a
pochi passi dal villaggetto di Emmaus, era la base Onu a
difesa della zona protetta di Srebrenica nel 1995. Lì, migliaia di bosniaci musulmani si rifugiarono cercando protezione. Da lì, poche
centinaia di caschi blu olandesi, forse per timore delle più numerose truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić (arrestato per genocidio e stupri etnici soltanto nel 2011), forse per un
disguido nell'avvicendarsi dei comandi, forse per ingenuità, li
fecero uscire a gruppetti, tra il 9 e l'11 luglio del 1995,
consegnandoli agli uomini di Mladić, che li ammazzarono.
Sono
oltre 7000 i nomi scolpiti sulle lastre di marmo del memoriale
di Potočari. I corpi restanti sono di difficile
identificazione ma le «Madri di Srebrenica» non demordono e non si
piegano all'idea di riunire le ossa in un'unica tomba, all'interno
del memoriale. Vogliono tutti gli 8372 figli, mariti e familiari qui, dove
il dolore non si placa, dove si rinnova ogni anno l'11 luglio, ciascuno con la loro lapide e il loro nome. Perché
il tempo non scalfisce il tormento, né il desiderio di dare
giustizia ai propri morti e coltivare la verità su quanto è
successo.
Il quaderno di un ragazzino ucciso durante il genocidio |
Le
truppe di Mladić rastrellarono le zone, radunando i bosniaci in istituti scolastici e fabbriche, dove li torturarono e
uccisero, seppellendoli in buche poco distanti. Emir mi spiega che il riconoscimento dei corpi riesumati
dalle fosse comuni (effettuato a Tuzla da una commissione
internazionale) si basa sulle prove del Dna. Basta il 67 per cento di
compatibilità per attribuire un nome a un corpo. Ma alcune famiglie
sono scomparse completamente e non ci sono parenti per risalire alle
salme. E poi c'è la confusione: una donna racconta di aver perso due
figli; il Dna li ha trovati, ma non sa con precisione se la testa
corrisponda a un corpo o all'altro.
Eppure,
la lotta per il riconoscimento va avanti e restituisce ogni anno
alcune centinaia di nomi (ora ne mancano all'incirca mille), con
lentezza e su una strada in salita ostacolata da chi ancora non
riconosce il genocidio.
«I
serbi non lo ammettono. Parlano di invenzione e la chiesa ortodossa
l'11 luglio, in concomitanza con la cerimonia musulmana, organizza il
Festival della luce e commemora alcuni caduti serbi uccisi dai
bosniaci nel '92, i cui corpi sono stati recuperati l'anno scorso. A
Srebrenica si respira la divisione e si mette in dubbio tutto.
Potočari è un puntino bosniaco
nella Repubblica Srpska. Ci sono madri
e mogli che riconoscono per strada i poliziotti che portarono via
figli e mariti. I giovani serbi hanno oggi gli stessi timori dei
coetanei bosniaci, ma i ragazzi non si parlano tra loro. Diciotto
anni fa ci fu collaborazione anche dei locali, che mettevano a
disposizione buche o terreni per le fosse comuni. Le vedove e le
madri ogni anno compiono un giro dei luoghi di reclusione, fabbriche e scuole, ma vengono
insultate. È una guerra che combattono da sole».
Gli
racconto che nel pomeriggio ho incontrato alla fabbrica Cecile, una
donna olandese che ogni anno accompagna i veterani connazionali qui.
Vogliono venirci, per una sorta di pellegrinaggio e per ricordare. La
voce e il viso serio di Cecile, dalla pelle candida incorniciato da
un velo a nascondere i capelli rossi, raccontano il grande peso nel
cuore di quei militari. Anche per loro, oggi, non dev'essere facile
ricordare. Lo faccio presente a Emir chiedendo come andarono in
realtà le cose. Mi spiega che le ipotesi sono diverse: forse Mladić
aveva dato loro garanzie politiche, assicurando che non avrebbe fatto
nulla ai bosniaci; forse li minacciò e gli olandesi – pochi e
molto giovani – cedettero il passo; forse ci fu un disguido nella
ricezione dei comandi. «C'era molta confusione. L'armata serba era
già entrata nella zona protetta. Srebrenica era caduta. Forse
ci fu una disfunzione tra i diversi anelli di chi impartiva gli
ordini e poi fu troppo tardi: i soldati erano già entrati. In
seguito, i bosniaci hanno chiesto che gli olandesi fossero
processati, ma la richiesta è stata respinta, con la motivazione che
erano lì in vece dell'Onu e, pertanto, non possono essere sottoposti
a processo».
(*) Le divisioni geopolitiche e religiose nei Balcani sono complesse. A grandi linee i croati sono cattolici, i serbi cristiano-ortodossi, i bosniaci musulmani. La Bosnia Erzegovina, geopoliticamente, è divisa in tre parti: la repubblica Srpska è quella serba ortodossa e corre lungo tutto il confine con la Croazia e la Serbia; la federazione di Bosnia ed Erzegovina è la parte dei bosniaci musulmani e ingloba Sarajevo; poi c'è il territorio di Brčko, un porto fluviale a popolazione mista, sul confine Nord-Est con la Croazia: si autogoverna dal 1999.
(*) Le divisioni geopolitiche e religiose nei Balcani sono complesse. A grandi linee i croati sono cattolici, i serbi cristiano-ortodossi, i bosniaci musulmani. La Bosnia Erzegovina, geopoliticamente, è divisa in tre parti: la repubblica Srpska è quella serba ortodossa e corre lungo tutto il confine con la Croazia e la Serbia; la federazione di Bosnia ed Erzegovina è la parte dei bosniaci musulmani e ingloba Sarajevo; poi c'è il territorio di Brčko, un porto fluviale a popolazione mista, sul confine Nord-Est con la Croazia: si autogoverna dal 1999.
Nessun commento:
Posta un commento