15 giugno 2014

Grande Guerra. Non è mai finita


di Maria Vittoria Adami, L'Arena - 25 maggio 2014

Il tempo scorre, ma il passato non passa; è un assioma in geopolitica, che non può non ritornare se l'oggetto dell'analisi è l'Europa a cento anni dallo scoppio della Grande Guerra, tema centrale quest'anno del festival internazionale «èStoria» di Gorizia. E l'assioma ci dice che i proverbiali «corsi e ricorsi storici» altro non sono che l'irrisolto che continuamente torna a galla da un secolo; da quando un calderone incandescente deflagrò per i due colpi di Browning esplosi dal giovane Gavrilo Princip, contro l'erede al trono dell'impero austroungarico Francesco Ferdinando. Che questi cento anni siano trascorsi all'insegna di equilibri geopolitici definiti nel 1919 con la firma del Trattato di Versalilles è pura illusione.
Lo sostiene Lucio Caracciolo, ospite ieri del festival e direttore della rivista di geopolitica «Limes» che a maggio ha dedicato un numero monografico al tema (2014-1914. L'eredità dei grandi Imperi). Dopo quella «pace», la guerra continuò con altri mezzi e il rimestare in magmatiche viscere riaffiorò con la Seconda guerra mondiale per continuare a ribollire covando sotto la glaciazione bipolare della Guerra fredda (dal 1946 al 1991) riaccendendosi, spiega Caracciolo, in forme bizzarre nel disordine della presente e presunta globalizzazione, che circola nella materia disseminata scaturita dal collasso della supernova nel 1914.
Il passato non passa, dunque, in barba agli analogisti della «storia che si ripete», ai deterministi dell'interpretazione meccanica delle cause e ai moralisti in cerca di colpevoli e innocenti. E nulla più delle conseguenze della Grande Guerra è ancora vivo perché, sostiene Caracciolo, non abbiamo ancora finito di digerire il suo principale esito, ovvero la simultanea scomparsa di quattro Imperi sui quali era polarizzata mezza Europa: l'ottomano, l'austroungarico (coi suoi sessanta milioni di sudditi, divisi in due Stati, una decina di nazioni, e una ventina di gruppi etnici minori), il tedesco e il russo. «Molte delle partite geopolitiche in corso possono configurarsi come guerre di successione per l'egemonia nei territori evacuati dai quattro Imperi. Due conflitti mondiali e una guerra fredda non hanno sciolto questi nodi. Nel '18, nel '45 e nel '91 la fine di una guerra venne spacciata come fine di tutte le guerre. Ma mai come oggi i quattro imperi, già certificati defunti, sono tornati di moda». Lo provano le vibrazioni neo-ottomane del «sultano» Erdogan o le rivendicazioni imperiali dello «zar» Putin, che ha sogni di gloria fondati sui fasti dei Romanov più che su quelli del regime bolscevico. E gli Avatar degli Imperi «continuano a irradiare della loro luce d'oltretomba i rispettivi ambiti di influenza». L'eredità della Grande Guerra fu la dissoluzione dell'ordine europeo, non il suo contrario. In questa chiave, l'Europa del 1914, allora sinonimo di mondo, era più Europa dell'attuale. Certo, era un'Europa dinastica, con un ordine che il Congresso di Vienna regolava da cent'anni. «Una famiglia allargata dove re e principi che si chiamavano per soprannome», e con un centro industriale e finanziario che era l'impero britannico.
Fu forse l'unica globalizzazione e saltò in aria nell'agosto del 1914. «Da allora nessun altro ordine è subentrato al legittimismo dei sovrani», lasciandoci ancor oggi un bagaglio di frontiere contese o contestate (laddove, ad esempio, si composero Urss e Yugoslavia) in balia di ideologie costruite su «diritti storici», legittimate talvolta dal principio wilsoniano dell'autodeterminazione dei popoli e abilmente maneggiate da leader ipernazionalisti se non addirittura da gruppi criminali. Fu così per i Balcani, potrebbe esserlo per l'Ucraina oggi. A Bruxelles c'è chi vuole assimilarla all'insieme europeo, l'America la sostiene per restringere i confini (e il potere) della Russia, e tutti trascurano che nella memoria imperiale russa era madrepatria. «È una terra di frontiere sorta, come repubblica socialista sovietica, su parte della Russia. Ma uno stato nazionale non si improvvisa e va poggiato su una mitografia nazionale».
Mettervi il dito produrrà conseguenze globali, secondo Caracciolo, non tanto per una questione di indipendenza energetica, ma per la partita giocata da America e Cina sulla leadership del XXI secolo. Se Obama, appoggiando i rivoluzionari di Kiev ha ridimensionato Putin tagliando un possibile asse russo-tedesco, incompatibile col primato americano in Europa, ha spinto la Russia verso la Cina, legandole in un'intesa paradossale, al pari di quella antisovietica Nixon-Mao, che apre un varco all'Asia in Europa. E si ritorna alla Prima guerra mondiale con i giochi di analogia, che non piacciono a Caracciolo e che questa volta arrivano dal Pentagono, con l'America a far la parte dell'Inghilterra edoardiana e la Cina della Germania guglielmina. Ma quando la seconda, decisa a strappare l'egemonia alla prima, ingaggiò la corsa al riarmo, fu la Grande Guerra. E ora? «Meglio non sapere. Non credo tuttavia nella possibilità di un conflitto mondiale, nonostante l'Ucraina sia tra le più importanti aree contese e contestate del mondo. Di certo uno degli eventi geopolitici più interessanti degli ultimi anni è l'accordo sul gas Russia-Cina».

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