di Maria Vittoria Adami, L'Arena - 25 maggio 2014
Il
tempo scorre, ma il passato non passa; è un assioma in
geopolitica, che non può non ritornare se l'oggetto dell'analisi è
l'Europa a cento anni dallo scoppio della Grande Guerra, tema
centrale quest'anno del festival internazionale «èStoria» di
Gorizia. E l'assioma ci dice che i proverbiali «corsi e ricorsi
storici» altro non sono che l'irrisolto che continuamente torna a
galla da un secolo; da quando un calderone incandescente deflagrò
per i due colpi di Browning esplosi dal giovane Gavrilo Princip,
contro l'erede al trono dell'impero austroungarico Francesco
Ferdinando. Che questi cento anni siano trascorsi all'insegna di
equilibri geopolitici definiti nel 1919 con la firma del Trattato di
Versalilles è pura illusione.
Lo sostiene Lucio Caracciolo, ospite ieri del festival e direttore della rivista di geopolitica «Limes» che a maggio ha dedicato un numero monografico al tema (2014-1914. L'eredità dei grandi Imperi). Dopo quella «pace», la guerra continuò con altri mezzi e il rimestare in magmatiche viscere riaffiorò con la Seconda guerra mondiale per continuare a ribollire covando sotto la glaciazione bipolare della Guerra fredda (dal 1946 al 1991) riaccendendosi, spiega Caracciolo, in forme bizzarre nel disordine della presente e presunta globalizzazione, che circola nella materia disseminata scaturita dal collasso della supernova nel 1914.
Lo sostiene Lucio Caracciolo, ospite ieri del festival e direttore della rivista di geopolitica «Limes» che a maggio ha dedicato un numero monografico al tema (2014-1914. L'eredità dei grandi Imperi). Dopo quella «pace», la guerra continuò con altri mezzi e il rimestare in magmatiche viscere riaffiorò con la Seconda guerra mondiale per continuare a ribollire covando sotto la glaciazione bipolare della Guerra fredda (dal 1946 al 1991) riaccendendosi, spiega Caracciolo, in forme bizzarre nel disordine della presente e presunta globalizzazione, che circola nella materia disseminata scaturita dal collasso della supernova nel 1914.
Il
passato non passa, dunque, in barba agli analogisti della «storia
che si ripete», ai deterministi dell'interpretazione meccanica delle
cause e ai moralisti in cerca di colpevoli e innocenti. E nulla più
delle conseguenze della Grande Guerra è ancora vivo perché,
sostiene Caracciolo, non abbiamo ancora finito di digerire il suo
principale esito, ovvero la simultanea scomparsa di quattro Imperi
sui quali era polarizzata mezza Europa: l'ottomano, l'austroungarico
(coi suoi sessanta milioni di sudditi, divisi in due Stati, una
decina di nazioni, e una ventina di gruppi etnici minori), il tedesco
e il russo. «Molte delle partite geopolitiche in corso possono
configurarsi come guerre di successione per l'egemonia nei territori
evacuati dai quattro Imperi. Due conflitti mondiali e una guerra
fredda non hanno sciolto questi nodi. Nel '18, nel '45 e nel '91 la
fine di una guerra venne spacciata come fine di tutte le guerre. Ma
mai come oggi i quattro imperi, già certificati defunti, sono
tornati di moda». Lo provano le vibrazioni neo-ottomane del
«sultano» Erdogan o le rivendicazioni imperiali dello «zar»
Putin, che ha sogni di gloria fondati sui fasti dei Romanov più che
su quelli del regime bolscevico. E gli Avatar degli Imperi
«continuano a irradiare della loro luce d'oltretomba i rispettivi
ambiti di influenza». L'eredità della Grande Guerra fu la
dissoluzione dell'ordine europeo, non il suo contrario. In questa
chiave, l'Europa del 1914, allora sinonimo di mondo, era più Europa
dell'attuale. Certo, era un'Europa dinastica, con un ordine che il
Congresso di Vienna regolava da cent'anni. «Una famiglia allargata
dove re e principi che si chiamavano per soprannome», e con un
centro industriale e finanziario che era l'impero britannico.
Fu
forse l'unica globalizzazione e saltò in aria nell'agosto del 1914.
«Da allora nessun altro ordine è subentrato al legittimismo dei
sovrani», lasciandoci ancor oggi un bagaglio di frontiere contese o
contestate (laddove, ad esempio, si composero Urss e Yugoslavia) in
balia di ideologie costruite su «diritti storici», legittimate
talvolta dal principio wilsoniano dell'autodeterminazione dei popoli
e abilmente maneggiate da leader ipernazionalisti se non addirittura
da gruppi criminali. Fu così per i Balcani, potrebbe esserlo per
l'Ucraina oggi. A Bruxelles c'è chi vuole assimilarla all'insieme
europeo, l'America la sostiene per restringere i confini (e il
potere) della Russia, e tutti trascurano che nella memoria imperiale
russa era madrepatria. «È una terra di frontiere sorta, come
repubblica socialista sovietica, su parte della Russia. Ma uno stato
nazionale non si improvvisa e va poggiato su una mitografia
nazionale».
Mettervi
il dito produrrà conseguenze globali, secondo Caracciolo, non tanto
per una questione di indipendenza energetica, ma per la partita
giocata da America e Cina sulla leadership del XXI secolo. Se Obama,
appoggiando i rivoluzionari di Kiev ha ridimensionato Putin tagliando
un possibile asse russo-tedesco, incompatibile col primato americano
in Europa, ha spinto la Russia verso la Cina, legandole in un'intesa
paradossale, al pari di quella antisovietica Nixon-Mao, che apre un
varco all'Asia in Europa. E si ritorna alla Prima guerra mondiale con
i giochi di analogia, che non piacciono a Caracciolo e che questa
volta arrivano dal Pentagono, con l'America a far la parte
dell'Inghilterra edoardiana e la Cina della Germania guglielmina. Ma
quando la seconda, decisa a strappare l'egemonia alla prima, ingaggiò
la corsa al riarmo, fu la Grande Guerra. E ora? «Meglio non sapere.
Non credo tuttavia nella possibilità di un conflitto mondiale,
nonostante l'Ucraina sia tra le più importanti aree contese e
contestate del mondo. Di certo uno degli eventi geopolitici più
interessanti degli ultimi anni è l'accordo sul gas Russia-Cina».
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