di Maria Vittoria Adami, L'Arena, 21 giugno 2014
Le
alluvioni riportano a galla le mine del conflitto che lacerò i
Balcani negli anni Novanta, come le maree in Normandia dal fondo
limaccioso dell'oceano
rigurgitano sulle spiagge cingoli arrugginiti di anfibi americani. È
la natura, che rende all'uomo ciò che egli stesso ha conficcato
nella terra, disperso in mare o incastonato nella roccia di montagna,
guerra dopo guerra. Abbracciando armamenti e casematte con grovigli
di boschi o seppellendoli nel sottosuolo sotto manti d'erba, la
natura ha sempre posto rimedio agli squilibri provocati dall'uomo, in
un difficile compromesso che si è complicato dove il conflitto ha
fatto irruzione non solo nell'ecosistema, ma nel mondo civile,
debordando dai fronti.
È
il processo inaugurato con la Grande Guerra e che ha la sua summa
nell'Altopiano di Asiago, l'isola a mille metri d'altezza sconvolta
all'improvviso dal più nefasto dei temporali bellici.
Sulla
trasfigurazione, non solo ambientale ma anche sociale di
quell'habitat, parla, lasciando il racconto alle immagini, il volume
fotografico «Guerra sull'Altopiano» (Cierre edizioni), a cura di
Vittorio Corà e Mauro Passarin, con un saggio introduttivo di Mario
Isnenghi e un contributo di Giuseppe Sandrini.
Quarantuno
mesi di combattimenti sull'Altopiano dei Sette Comuni imposero un
cambiamento radicale a quell'isola di prati e pascoli, coronata dalle
vette a strapiombo su Veneto e Trentino, che divenne isola di guerra,
violata da una straordinaria concentrazione di masse di soldati e
armamenti, sin dal maggio del 1915. E quando le prime cannonate che
un anno dopo annunciarono la Strafexpedition austriaca, abbattendosi
su Asiago e costringendo una popolazione in panico a un repentino e
totale sfollamento delle contrade, il dominio militare fu completo.
Il
presidio delle quote a sud da parte delle truppe italiane, e di
piccoli contingenti inglesi e francesi, e a nord dei soldati
austroungarici, siglò la fine di un mondo dedito all'alpeggio e alla
placida vita di montagna. Si aprì quello di paesi devastati e
ridotti a cumuli di macerie (significativa è l'immagine di Gallio
del 1918), di boschi e pascoli distrutti, mentre un esodo forzato di
popolazioni stipate sui carri scendeva percorrendo le strade che a
ritroso imboccavano fiumane di soldati, autocannoni Ansaldo e grosse
artiglierie. Invaso da militi e costellato di mitragliatrici, quel
quieto microcosmo parlò tante lingue e vide volti di etnie diverse,
nel tintinnare di elmi, scatolame e proiettili giganti Skoda. Divenne
un territorio militarizzato in cui gli schieramenti si fronteggiavano
ad Asiago, Canove, Cesuna, Gallio e Foza. Tumulti di bombe e fuoco di
fucileria sostituirono i rintocchi delle campane e i campanacci delle
vacche da latte, mentre il Genio militare costruiva strade
abbarbicate sulla roccia, gallerie e trincee; nelle retrovie sorsero
ospedali da campo e cimiteri improvvisati, man mano che le battaglie
infuocavano. Mutuando da Carlo Emilio Gadda, si aveva la misura
dell'intensità della lotta dall'aspetto della foresta: «pini
stroncati, massi proiettati, frantumi di roccia e schegge di
proietti: cenci sanguinosi; un odore acre di morte: qua e là
testimoniata dai cadaveri in abbandono», che i vivi non avevano il
tempo di fermarsi a guardare.
Cambiò
l'assetto del territorio, segnando la storia personale e collettiva
della popolazione che, tolta la «crosta della storia politica della
guerra», scrive Isnenghi, «è la «storia sociale dell'uomo in
guerra», in un conflitto giocato tra «terra, aria, fuoco e (poca)
acqua».
Teatro
di sanguinose battaglie, l'Altopiano, con la Strafexpedition del '16,
la Battaglia dell'Ortigara e quella di Natale del '17, quella del
Solstizio del '18 (estremo tentativo dell'Impero asburgico di
sfondare le difese italiane), diventerà un mondo a sé stante, con
un concentrato di vita di guerra che trasudava dal sottosuolo anche
negli anni successivi, quando gli ordigni inesplosi facevano strage
di uomini e bestiame (Canove 1919).
L’inedito
repertorio iconografico del volume, proveniente da importanti archivi
italiani ed europei, illustra le diverse fasi del conflitto e le
conseguenze sul piano sociale economico e identitario di quel
baluardo strenuamente difeso dagli italiani, per non precipitare a
valle aprendo un varco all'Austria verso Venezia, oltre i confini
ridisegnati nel 1866.
Rimangono
oggi, là dove la natura è ricresciuta rigogliosa su crateri di
bombe o rimpolpando boschi scheletrici, le rovine delle fortezze, i
resti delle trincee, ruderi di impianti idrici e teleferiche,
baraccamenti e reti stradali, cimiteri e lapidi. Un lascito di
rottami e ferraglia che fece vittime anche a guerra finita (nel 1920
nacque il Consorzio rottami metallici che bonificò trincee e
depositi), ma anche una fonte economica per chi, davanti alla crisi
degli anni Venti, non volle abbandonare di nuovo la sua terra, in
cerca di fortuna, segnando un chiaro senso di appartenenza
all'Altopiano. Chi, dunque, rischiando la vita, divenne un
«recuperante» rivendendo quei rottami. È il capitolo finale di una
storia che il libro racconta per immagini di luoghi che saranno per
sempre sinonimi di Grande Guerra,
dall'Ortigara al Cengio, da monte Interrotto a Cima 12,
immortalati dalle penne di Gadda, Stuparich, Frescura, Monelli,
Lussu, e da una memorialistica che, assieme agli scatti, rende ogni
giorno all'uomo, come fa la natura, il ricordo di quella catastrofe
di inizio Novecento.
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