8 maggio 2014

Il tunnel di Sarajevo


Il tram numero 3 gira ad anello e dalla Baščaršija percorre tutto il centro, esce verso la periferia, passa davanti all'Holiday Inn, per finire nel quartiere termale di Ilidža, dai grandi hotel di retaggio asburgico. È il capolinea. Da qui, prendendo un taxi, per pochi euro, si può raggiungere un borgo di case sperduto, a ridosso delle piste dell'aeroporto. È Butmir, il villaggio del tunnel.
Ci arrivo con la neve. Il giorno prima c'era sole, ma vedere questo posto isolato, con i fiocchi mescolati alla pioggia e un vento sferzante, aiuta a capire tante cose.
Capisci il fango e il freddo, capisci gli ostacoli che Sarajevo ha vissuto in quasi quattro anni di assedio, legata al mondo esterno per quello stretto cordone ombelicale lungo 800 metri, largo uno e alto uno e mezzo, progettato e costruito in quattro mesi e quattro giorni: il tunnel di Butmir; il tunnel di Sarajevo.

Oggi c'è un piccolo museo (si entra con 10 marchi bosniaci, circa 5 euro) e si può visitare un breve tratto della galleria.
Le truppe serbe strinsero Sarajevo in una morsa su tre lati, tutto attorno alle colline. Il quarto tratto era segnato dall'aeroporto, zona neutra oltre la quale il territorio era difeso dai bosniaci, a cominciare da Butmir. Qui si pensò di scavare una galleria che passasse sotto le piste e sbucasse a Sarajevo. In quel budello fangoso, che si riempiva d'acqua fino a lambire le ginocchia di chi vi transitava, si infilavano giovani in fuga, si trasportavano malati o feriti, viveri e animali, anche armi, con l'ausilio di una piccola rotaia sulla quale correvano carrelli e barelle.
Per quasi quattro anni il tunnel è stato un barlume di speranza, oltre che linfa vitale della città. Di quella storia oggi resta una casa bianca mitragliata da una scarica di colpi sulla facciata, a pochi passi dalle rotte degli aerei. È l'ingresso del museo, vent'anni fa era quello del tunnel, del quale si possono visitare 26 metri messi a nuovo (il resto è crollato). Di fronte, c'è un'altra casina fatiscente. Porta una scritta sulla facciata. Un tizio mi vede rapita da quel rudere. «Papiere», mi fa. Tra gesti e parole di tutte le lingue (in quella sorta di Esperanto che accomuna due persone che vogliono a tutti i costi comunicare) mi spiega che era l'ingresso principale al tunnel dove si controllavano i documenti e c'era la polizia. Mi avvicino. Da un buco nel muro, si scorge una vecchia scala di legno che conduce sotto terra, ma i gradini sono inghiottiti da detriti e cespugli, come la maggior parte del tunnel. 
Torno nel cortile della casa bianca; dopo l'ingresso, si accede a una stanzetta. Sopra cassette di legno verdi per le munizioni sparse a terra ci si può sedere, per vedere un video che racconta gli anni dell'assedio, dei bombardamenti e dell'uso del tunnel. Sulle pareti ci sono divise ed equipaggiamenti. Al piano di sopra, nelle teche, sono esposti armi, progetti per la galleria, materiali e cibi trasportati (un carrello pieno di scatole di uova), documenti e foto. Le scarpe sportive, in una teca, sono un colpo al cuore. Abituata a oggetti e vestiti d'altre epoche, nei musei di tutta Europa, vedere un paio di scarpe moderne, di quelle che si portavano anche da noi, indossate da qualcuno che poteva avere la mia età, mi sconvolge: sono un chiaro segno di quanto contemporanea sia stata questa guerra, di quanto vicina sia stata, non solo geograficamente.
Esco ammutolita da Butmir, muto e silenzioso a sua volta. 

2 commenti:

  1. Il tunnel è uno dei luoghi emozionanti di Sarajevo, che pure emoziona in ogni suo angolo: nelle macchie di vernice rossa che incontri sulle strade dove sono esplose le bombe più sanguinose, nei colpi di mortaio che bucano le pareti delle case, nei campanili fianco a fianco dei minareti...

    (Bello leggere questo post nel giorno della riapertura della Viječnica)

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    1. Già, Sarajevo è una città che comincia a mancarti già nel momento in cui stai per lasciarla...

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