Sulla Zmaja od Bosne c'è un palazzo bianco e nero, degli anni Settanta, lugubre (almeno se lo si vede con la pioggia) e sgangherato. È di fianco al museo nazionale e durante l'assedio di Sarajevo fu bersagliato e danneggiato dalle granate, come tanti altri palazzi. Così la copertura di lastre di marmo sulla fiancata cade a pezzi; la gradinata è traballante e scheggiata.
L'edificio
ospita il museo della guerra degli anni Novanta (foto) ed è stato lasciato
così com'è – apparentemente pericolante – per dare l'idea al
visitatore delle conseguenze di un conflitto.
È talmente realistico che all'interno, nello spazioso piano rialzato dove è allestita l'esposizione, piove dal soffitto in alcuni punti, ma nessuno sembra farci caso...
È talmente realistico che all'interno, nello spazioso piano rialzato dove è allestita l'esposizione, piove dal soffitto in alcuni punti, ma nessuno sembra farci caso...
C'è
una sola sala, ampia e luminosa, con poche teche ma tutto ciò che
serve per raccontare le guerre balcaniche. Una lunga parete di
pannelli con testi e foto ripercorre l'iter processuale dei responsabili di quel conflitto civile, autori di stragi e deportazioni, su tutti i
fronti, dalla Croazia al Kossovo, dai primi agli ultimi anni Novanta.
Ricostruisce la loro storia dal momento dell'arresto fino all'esito del
processo: sono 161 gli imputati passati per il Tribunale penale
internazionale. Per alcuni è stata emessa sentenza di colpevolezza,
per altri il processo è ancora in corso. Tra i capi d'imputazione ci
sono genocidio, crimini contro l'umanità, violazioni delle leggi di
guerra e della convenzione di Ginevra. Sono stati ascoltati 4500
testimoni. Al luglio 2011 non c'erano più fuggitivi (nel maggio di
quell'anno fu arrestato Ratko Mladić).
Tutto
attorno, sulle pareti, c'è la guerra a Sarajevo narrata dai
giornali locali e dai fotoreporter; sotto – nelle teche – oggetti
d'uso quotidiano che rimandano di nuovo, come fanno quelli del museo del tunnel, a riflessioni sconcertanti sulla contemporaneità di un
conflitto al quale il resto del mondo sembrò non far caso. Sono di
nuovo le scarpe a suscitarmi questo pensiero. E i quaderni, gli
astucci, le penne che potevano essere le mie. Le torce elettriche, le
sigarette, tazze e tazzine, bottiglie... Utensili senza ruggine e
preservati dall'usura del tempo, perché di tempo ne è passato poco
da quel conflitto contemporaneo combattuto fuori dalla porta di casa
nostra.
In
un angolo c'è la riproduzione di un banco del mercato di Markale,
bombardato più volte durante l'assedio. Tra i cibi in scatola e le
lattine si leggono parole italiane, sulla latta dell'«olio di semi»
o il sacco della pasta. Poco più in là, è stata ricostruita la
cucina di un'abitazione. Era la stanza della casa nella quale si
passava più tempo e nella quale si finì per fare tutto: mangiare,
disegnare, dormire, stendere i panni. Vivere, nell'attesa della fine
dell'assedio.
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