7 agosto 2013

Potočari, 18 anni dopo

Arrivano alla spicciolata già il giorno precedente. Quando il 10 luglio raggiungiamo Potočari, a pochi chilometri da Srebrenica, è metà pomeriggio ed Enzo, al volante, fatica a passare tra la marea di giovani che sta per piantare le tende. E non è un modo di dire. Si accampano ovunque. Con la canadese nel prato o nei ruderi delle case distrutte 18 anni fa; mangiano seduti ai tavolini dei bar o sulle panche dei baracchini con lo spiedo che gira, mentre nell'aria volteggiano caldi venticelli al profumo di ćevapčići. 

Se non fossimo davanti al memorial center di Potočari, dove ogni 11 luglio si ricorda il genocidio musulmano del 1995 con un grande funerale collettivo, sembrerebbero i prodromi della giornata mondiale della gioventù. Lo faccio presente a Emir. In luoghi come questi, in genere, non è facile trovare ragazzi. Invece tra donne velate, anziani e famigliole, tutte accampate alla bell'e meglio, i volti giovani sono tantissimi. «Sono quelli che 18 anni fa erano bambini. Vengono da tutta la Bosnia, ma anche dal Canada e dall'America. Sono scampati con le loro madri al genocidio», mi spiega Emir. Erano piccoli allora, quando i serbo-bosniaci rastrellarono le zone circostanti, radunando i bosniaci musulmani e selezionadoli in due file: a sinistra si viveva (era per donne e bimbi); a destra si moriva (era per uomini e ragazzini).

I furgoni delle reti televisive, che il giorno dopo trasmetteranno la cerimonia in diretta sono già in postazione. 
Ragazzi vanno e vengono, con magliette colorate e bandiere al collo. Da una panchina mi chiama un giovane. Ha gli occhi celesti e cicatrici sul viso. Mi chiede se sono giornalista, indicando la macchina fotografica al collo, e mi dice che conosce Giuliano Ferrara. Mi racconta di essere stato in Italia durante la guerra, perché era stato colpito da una scheggia. Fu operato nel nostro paese e in quell'occasione Ferrara lo intervistò, mi dice. Gli scatto una foto e gli chiedo il suo nome: «Ibrahim, ma non come il calciatore». E ci salutiamo.

Al memoriale nel frattempo, sono state già posizionate centinaia di bare, fianco a fianco, ricoperte da un tessuto verde. L'indomani saranno sepolte. Hanno un numero davanti e custodiscono ciò che resta di 409 delle 8372 vittime del genocidio operato dalle truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić tra il 9 e l'11 luglio del 1995. Sono state riconosciute nell'anno in corso grazie alle prove del Dna, effettuate a Tuzla da un'apposita Commissione internazionale. Dopo 18 anni trovano riposo. Alcuni parenti sono già arrivati. Donne chine sulle bare piangono. Uomini composti poggiano una mano sulla cassa del figlio o del padre e pregano. È un viavai silenzioso, come silenzioso e rimbombante è il grande capannone di fronte al memoriale, che ospiterà le autorità domani. È la fabbrica di Potočari che 18 anni fa faceva da base Onu a difesa della zona protetta di Srebrenica. Qui vi si rifugiarono 300 civili che cercavano protezione dal pericolo serbo: le truppe di Mladić minacciavano di sfondare l'area. E quando lo fecero, i caschi blu olandesi commisero l'errore di far uscire alla spicciolata i musulmani bosniaci dalla fabbrica, consegnandoli di fatto ai serbi, che li ammazzarono (Per quelle morti, la corte dell'Aja, nel gennaio 2015 ha riconosciuto la responsabilità dell'Olanda). 

Oggi, nella parte centrale della fabbrica, una fila di teche contiene i ricordi di chi non c'è più: orologi, quaderni, oggetti personali che hanno ridato volto, nome e storia ai corpi dissotterrati dalle fosse comuni nei dintorni di Srebrenica. C'è Rijad Fejzić, di 18 anni. La sua ultima foto è di quando ne aveva 11. Nella teca ci sono i suoi quaderni. Voleva fare il pilota da grande, invece, mentre si dirigeva a piedi verso Tuzla, fu portato dai serbi a Potočari con la madre e messo in fila con altra gente. A lei ordinarono di andare a sinistra, a lui a destra. E non tornò più. Aveva 57 anni, invece, Ahmo Avdić, che amava fumare. Ci sono le sue sigarette nella teca. Mentre caricava su un furgone moglie e figlie, a Potočari, fu selezionato dai Serbi. E fu ucciso.


Sono migliaia le storie come queste. 8372 per la precisione, che domani le famiglie ricorderanno al memorial center. «Sentirete un'atmosfera particolare», ci dice Lejla. «Sentirete i morti e il dolore che si respira».


Altre foto le trovi qui 


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