

La preghiera in lingua araba rimbomba
sulla spianata del memoriale, costellata di cippi di marmo cangianti
ed è già un brulicare di veli di donne dai mille colori. Quella
litania mi entra in testa, quasi ipnotizzandomi, mentre mi faccio
largo tra le persone davanti all'ingresso, seguendo Samra: ha 27 anni, è di Gračanica e mi accompagnerà fino a Sarajevo, stasera. Il suo ricordo della guerra è molto più diluito di quello di Lejla. Il conflitto è passato per casa sua solo perché il padre era impiegato in un ospedale vicino, dove ricoveravano i soldati. Non ha altre esperienze.
Ai cancelli d'ingresso, tra la ressa, c'è un uomo con una giacca grigia che
guarda dei fogli appesi al muro. Vicino due donne li scorrono col
dito. È l'elenco delle bare. A ogni numero corrisponde un nome,
perché finalmente quel nome corrisponde a un corpo, racconta una
storia e ha una famiglia che può piangerlo su una tomba.
Tra i cippi in marmo, all'interno, ci
sono nuove fosse, con un pezzo di legno verde a indicare la posizione
per ciascuna delle 409 bare, schierate subito dopo l'ingresso. Ancora qualche
ora di preghiera, poi per loro ci sarà la sepoltura.

Samra dice che è la prima volta anche per lei a Srebrenica. Ha comprato un fiorellino bianco con il cuore verde, fatto all'uncinetto, da due ragazze all'ingresso che li vendono con un cestino di giunchi intrecciati; è la margherita di Srebrenica; è per sua sorella, ma me la regala, spiegandomi che il bianco è il colore della purezza e il verde un colore caro ai musulmani.
Mi guida tra la folla, dicendo che la preghiera che sento è araba, ma non la capisce perché non conosce la lingua.


Scorgo fisionomie di ogni genere. Donne
cerulee dagli occhi di vetro e capelli d'oro. Anziane dalla pelle olivastra, ciocche ingrigite e profonde rughe scavate più dalla vita che dalla vecchiaia. Ci sono uomini alti e magri che sembrano quelli visti
nei servizi dei telegiornali: quelle carrellate di
prigionieri nei campi di concentramento che negli anni Novanta non riuscivo a credere fossero sorti nei Balcani, davanti alla porta di casa.
Non dopo la Shoa di metà Novecento.
Ci sono volti zigani, capelli scuri,
baffi folti sotto coppole nere o riccioli mediterranei che spuntano
dai veli. E veli. Una girandola di veli di tutte le fattezze e colori.
Se n'è ormai andata quasi tutta la
mattinata. Su un grande schermo si vedono le immagini all'interno
della fabbrica, dove si sono incontrate le autorità, impegnate nella
celebrazione civile e in un giro di interventi tra i quali manca
sempre quello di parte serba, che non riconosce il genocidio.

Un improvviso temporale non spaventa. Nessuno si muove dal posto, nonostante lo scroscio d'acqua battente, che passa in breve tempo. Solo quando
finisce la preghiera, le casse verdi vengono alzate e passate di mano
in mano sopra le teste dei presenti. Nella prima fila ce n'è una più
piccola. È di una bimba di tre giorni. A lei hanno reso omaggio
centinaia di persone, attendendo in coda. Quasi fosse il simbolo di una barbarie che non ha fatto distinzioni d'età e di genere.
Ancora una preghiera. Poi man mano, il
cimitero si sfolla. È pomeriggio inoltrato quando Potočari si spegne.
(Altre foto puoi vederle qui)
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