28 giugno 2017

Don Milani e la scuola di Barbiana

La strada da Vicchio si fa sempre più stretta mentre si inerpica sulle alture del Mugello a 300 metri d'altezza dove 50 anni fa il buio, le salite impervie e i boschi rendevano gli inverni lunghi e lenti: un muro d'isolamento dal mondo per un nugolo di pastori e contadini. Oggi luogo ameno della campagna collinare fiorentina, facilmente raggiungibile con l'auto e visitato da 12 mila persone l'anno, Barbiana nel 1954 era un punto sperduto nell'universo, perfetto luogo d'esilio per quel prete che andava fondando scuole popolari serali per giovani lavoratori, insegnando che la padronanza della parola sarebbe stata il loro strumento di riscatto e fermo sulla convinzione che buttare nel mondo un ragazzo senza istruzione fosse come buttare in cielo un passerotto senza ali (La parola fa eguali).

Nato a Firenze il 27 maggio 1923 da una famiglia di ebrei agnostici e anticlericali benestanti e istruito nelle migliori scuole di Milano, convertitosi nel 1943, fu nella semplicità del borgo di Barbiana che don Lorenzo – nei suoi ultimi otto anni di vita – cambiò il mondo trasformando una chiesetta sperduta in stella polare per poche case di contadini sparse qua e là, ma lanciando un messaggio che arrivò ben più lontano, testimoniato oggi dalle centinaia di istituti a lui intitolati. Lì fondò la celebre scuola che diede un futuro a una trentina di bambini figli di povera gente, che di futuro non ne avrebbero avuto. E lì, una volta ceduto alla malattia che lo portò via a soli 44 anni, il 26 giugno 1967, volle riposare per sempre in quel cimiterino, formato da una piccola cappella attorniata da poche tombe.
Scuola di intelletto e di vita, nata per dare una chance a quei piccoli cresciuti lontani dal mondo e sciolta nel 1968, Barbiana è ancora tale e quale. Tutta lì: un'aula ricavata nel salotto del prete dove ancora campeggia la celebre frase «I care», mi sta a cuore, contrario del motto fascista «Me ne frego», e gli scaffali pieni di libri e l'astrolabio costruito da don Milani e i suoi ragazzi insieme, di gruppo, com'era nel suo metodo. Alle pareti, cartine dell'Europa nelle diverse fasi storiche e i grafici elettorali che ritraggono il parlamento con i colori dei partiti: un arcobaleno, nella Repubblica democratica, che si contrappone all'emiciclo tutto nero del ventennio fascista. Pergolati e giardino erano le aule estive dove il vecchio tavolo tuttora collocato in classe veniva spostato; vicino, una piscina prima costruita dai ragazzini di Barbiana e poi da loro usata per imparare a nuotare; infine i laboratori, attigui alla chiesa, dove una volta cresciuti impararono un mestiere.
Don Milani arrivò una sera di dicembre, buia, fredda e umida. Parroco di San Donato di Calenzano, dove aveva fondato una scuola popolare per giovani lavoratori, era persona scomoda: insegnava che la differenza tra ricchi e poveri - di cultura e quindi di denaro - era la parola. A 130 ragazzi offrì così strumenti per cercare ciascuno la sua verità. Ma questo scontentava molti: «I benpensanti della Democrazia cristiana perché parlava da comunista e i comunisti perché svuotava le case del popolo. E si sa, quando in un campanile di quattro campane tre suonano in un modo e una in un altro, quella diversa va cambiata», racconta Agostino Burberi, 70 anni, sindacalista Cisl Tessili e oggi presidente della Fondazione Barbiana che si prende cura del sito, accompagnando i visitatori, nei luoghi mantenuti immutati e semplici prestando fede alla promessa fatta a don Milani che in punto di morte chiese ai suoi ragazzi: «Non permettete che i borghesi intellettuali si impossessino di me».

Burberi fu tra i primi sei alunni della scuola di Barbiana e il primo a incontrare don Milani. «Ero chierichetto in chiesa. Arrivò col buio, quel 7 dicembre 1954. Si aprì la porta; lo vidi entrare. Era venuto senza vedere prima Barbiana. Lo avevano mandato e lui aveva obbedito – continua Burberi –. Era lo straniero che aspettavamo. Entrò in chiesa, guardò e si mise a pregare. Il giorno dopo fece il giro delle case dei contadini dicendo che avrebbe fatto una scuola per i loro bambini. Il salotto del prete divenne l'aula. Non eravamo mai entrati in quella stanza, da allora fu sempre aperta». 
Don Milani cominciò dall'abc con sei bambini di diverse età, tutti maschi, per passare all'educazione civica, alla Costituzione e a una formazione anche professionalizzante. «Si faceva scuola 12 ore al giorno, tutti i giorni. Negli otto anni sono passati per quei banchi una trentina di ragazzi. Era un'istruzione pratica, di vita, per permetterci di fare delle cose. Non c'erano voti e si andava avanti solo quando l'ultimo aveva capito. Urlava, sì, era manesco talvolta, ma difendo quel metodo». Perché studiare per quei bambini sarebbe stata la loro chance. «Si studiava per sapere. Ci abituava a essere critici e ci rendeva orgogliosi anche nei confronti di quelli del paese. Eravamo figli di contadini umili, ma leggevamo articoli di giornale perché la padronanza della parola era fondamentale. La sua bandiera di vita fu la parola. La sua eredità: la coerenza».

Ardeva nel desiderio di riscossa degli ultimi, don Milani. Per questo la scuola era un luogo sacro: «Come la chiesa, perché era per il cervello – conclude Burberi –. Il tempo è un dono di Dio e non va sciupato, ci insegnava», mettendo loro in mano una grande responsabilità: la loro vita, il loro futuro.

1 commento:

  1. Ci fu un tempo in cui, per sapere, si studiava.
    Come sempre accadde, guardarsi indietro offre ottimi esempi a cui ispirarsi per non perdere il lume della ragione al tempo della post-verità. Se poi sono scritti come sai fare tu... Potere alla parola!

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