19 giugno 2017

La Grande Russia di Putin secondo Romano

Per 15 anni ce ne siamo dimenticati, quasi archiviandola, troppo in fretta, con la fine della Guerra Fredda e lo sfaldamento dell'Unione Sovietica. Ma la Russia coi suoi metodi -agli occhi delle democrazie occidentali - aggressivi e spregiudicati e con una potente guida, Vladimir Putin, è tornata alla ribalta della scena internazionale. Oggi con le presunte interferenze nelle elezioni americane e con l'intervento in Siria, ieri con il conflitto in Ucraina per l'annessione della Crimea.
Sergio Romano, 87 anni, che ha chiuso la sua carriera di ambasciatore italiano proprio a Mosca, offre una chiave di lettura di questa rinnovata superpotenza nel suo Putin e la ricostruzione della Grande Russia (Longanesi 2016, pp.160, 18 euro), presentato al festival internazionale èStoria 2017 di Gorizia.

Ritiratasi per curare le sue ferite interne, dopo la caduta dell'Unione Sovietica, e per evitare altri sfaldamenti (da qui l'incubo dell'indipendenza cecena, a rischio di emulazione), per molto tempo la Russia non ha potuto mantenere il ruolo esercitato in passato quando non c'era trattato che fosse sottoscritto a livello internazionale senza il suo parere. «È stato dato per scontato che la sua decadenza fosse definitiva», spiega Romano. «Forse gli oligarchi potevano pensarlo, mirando a una maggiore autonomia. Ma c'era chi, amareggiato, voleva riprendere il terreno perduto». Tra questi c'era Putin dal passato nel Kgb e convinto «nazionalista russo» ovvero proteso a tenere unite tutte le componenti dello Stato imperiale: «Nel caso russo, essere nazionalisti non significa esserlo etnicamente, ma con una connotazione imperiale: la Russia è sempre stata un impero», spiega Romano. «Per Putin lo choc è stato la perdita di questo status internazionale. La nostalgia è per questo, non per la rivoluzione bolscevica o Brest Litovsk (trattato del 1918 per l'uscita della Russia dalla prima guerra mondiale, ndr). Essere nazionalisti senza connotazione imperiale, quindi, significa essere causa di guerra civile». E Putin è da sempre guidato da questo concetto, espresso tardi solo perché prima si è occupato di altro: «Di nemici interni, come gli oligarchi, ormai padroni di casa, che doveva mettere in riga. Fu la sua prima vittoria. Li convocò e disse loro che potevano continuare a fare ciò che facevano, ma che dovevano pagare le tasse e obbedire al Cremlino».
Romano suggerisce un punto di vista interno alla Russia per capirne le dinamiche che la regolano e che all'esterno figurano dispotiche e antidemocratiche. «Considerare Putin un tiranno è un atteggiamento da guerra fredda. Il suo è un metodo democratico nel senso del termine: il popolo c'è, è favorevole a Putin. Gli riconosce meriti e l'orgoglio nazionale. Certo a qualcuno nel mondo questo non piace. Gli Stati Uniti continuano a tenere vivo il sentimento che la Russia sia un nemico». Da qui il Russia-Gate e il caso dell'interferenza sulle elezioni americane. «Già il termine Gate evoca Nixon, evoca l'impeachment che si tenta sempre per ogni presidente. Nel Russia Gate vedo il desiderio di incriminare Trump e niente lo renderebbe più facile quanto un legame con i russi che sono accusati di spionaggio. Ma chi non fa spionaggio internazionale?». Diplomatico e conservatore Romano caldeggia strade alternative alla russofobia e che non passino per sabotaggi e sanzioni: «Sono atti ostili che hanno il fine di rovesciare il regime dello Stato sanzionato. Ma innescano poi altri atti ostili a catena nelle popolazioni».
Nazionalista e superpotenza, la Russia rimane però refrattaria alla democrazia se si parla di libertà di stampa e di voci scomode: «Perché per le componenti slave e asiatiche e il quadro religioso variegato, la Russia è un paese che si governa solo dal centro, altrimenti rischia scissioni, dissidenze, guerre civili. Certo è auspicabile più libertà per i suoi cittadini perché ha conosciuto una crescita della società borghese che ha viaggiato e letto e merita molto di più di quanto Putin conceda, ma è una minoranza. La maggioranza pensa che conti il potere come antidoto per la fragilità del Paese».

Previsioni per il dopo Putin? «Sono un conservatore. Terrei Putin, almeno lo conosco. Il passaggio di potere comporta sempre una crisi. Trovare un altro presidente russo sarà un problema». 
(L'Arena 15 giugno 2017)

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