22 agosto 2014

Carlo Emilio Gadda e la Grande Guerra (a Verona)


È il 1917. L'8 febbraio un giovane tenente alpino, che diventerà dopo la guerra uno dei maggiori prosatori del Novecento, è giunto a Verona. Ha preso una stanza in una pensione privata, in via Scrimiari 44, della famiglia Contolini. A colazione e a pranzo va al Circolo Militare. È Carlo Emilio Gadda, partito per il fronte due anni prima, arruolandosi volontario nel 5° Alpini, 470° reparto mitragliatrici.
Scrive alla sorella Clara, a Milano: «Sono felicemente arrivato (a Verona, ndr) e sto benone, ma il tempo è orribilmente freddo. Ho sentito che mi fermeranno qui per parecchi giorni prima di darmi la licenza… Dobbiamo rispondere a due chiamate giornaliere a turno e c'è qualche servizio di picchetto». È una delle circa 5000 lettere custodite nell'archivio Liberati, a Villafranca (articolo sotto), che, tra la corrispondenza mantenuta da Gadda nell'arco della sua vita, ha anche un fondo di cartoline postali che lo scrittore ingegnere scrisse dal fronte alla madre Adele Lehr, alla sorella Clara e al fratello Enrico. Due di queste, inviate da Verona, nel febbraio del '17.
Il giovane tenente ha 24 anni e chiede notizie della famiglia e di Enrico, fratello più giovane, molto amato, e anch'egli arruolato. «Sta allegra – scrive qualche giorno dopo a Clara – non ostante la tua situazione difficile, pensando che presto saremo tutti riuniti e che noi tutti staremo benone».

Sono passati quasi due anni, da quando il fervore del dibattito interventista ha acceso in lui, come in altri letterati (fu ingegnere, al Politecnico di Milano, solo per volere della madre), lo slancio patriotico infarcito di spinte nazionaliste e risorgimentali, che si concretizzano nell'arruolamento volontario. Parte per il fronte, col fratello Enrico, pilota d'aerei della 35ma squadriglia di volo. Carlo è assegnato, invece, prima alle retrovie dell'Adamello, poi sull'Altipiano di Asiago, quindi sul Carso, cadendo prigioniero dopo la rotta di Caporetto, la «fine delle fini», la definirà. Saltano i ponti sull'Isonzo e cade in mano austriaca, finendo la guerra in un campo di prigionia in Germania, a Cellelager nella provincia di Hannover. Tornerà solo nel 1919, apprendendo nel frattempo che Enrico è morto, nell'aprile del 1918, cadendo col suo aereo, per un incidente di guerra a San Pietro in Gu (Pd). La notizia sarà per lui uno dei motivi di grande dolore che accompagneranno l'intera esistenza dello scrittore e che si rifletterà anche nella sua prosa.
Quell'esperienza bellica è raccontata dai cimeli dell'archivio Liberati, dove oltre alle lettere dalla zona di guerra, rimangono ricordi che Gadda aveva custodito in una cassetta di legno, sul fondo della quale è tuttora scritto il suo nome e il reggimento di appartenenza. Ci sono oltre 200 negativi su vetro di fotografie scattate in trincea. Immagini inedite che immortalano alpini, campi di battaglia martoriati dai bombardamenti o delimitati dai reticolati, pertugi asfittici nei quali i soldati erano stipati, nei boschi o nella roccia, col sole o con la neve, dall'Adamello ai monti attorno all'Isonzo. E ci sono gli scatti del fratello Enrico: aeroplani, compagni di volo, scorci del lago di Garda e monti circostanti.
Nulla della divisa di Gadda e del suo corredo militare è rimasto. Tutto perduto durante la prigionia, fatta eccezione del coltello da combattimento, delle fascette del 470° reparto Mitragliatrici, del rasoio e delle posatine da montagna e di alcune fibbie della cintura: quelle della divisa ordinaria e quelle da parata. E poi i ricordi del fratello: le mostrine della 35ma squadriglia, la cuffia da portare sotto il casco da pilota, i tricolori da attaccare all'aereo.
Nelle lettere, invece, come nelle opere letterarie successive, traspare il dolore per una guerra che aveva deluso. L'illusione che il conflitto potesse fungere da riscatto per la Nazione, portando un vivere civile e ordinato, accomunava molti intellettuali volontari. Che quasi sempre persero la vena combattentistica davanti alla realtà che la guerra di trincea, nel suo disordine, nella sua inefficienza, nella sua mostruosità, rivelò. Doveva essere una forma di riscatto anche personale per Gadda, fu invece un'esperienza terribile, non solo per la dolorosa perdita di Enrico, al quale era estremamente legato, ma anche perché il sogno di ordine e perfezione (sua ossessione anche nella produzione letteraria che lo accompagnò per una vita) fu abbattuto dal caos della macchina bellica: «I nostri uomini sono calzati in modo da far pietà: scarpe di cuoio scadente e troppo fresco per l'uso... dopo due o tre giorni di uso si aprono, si spaccano, si scuciono». E quegli alpini senza scarpe sono costretti «alla vergogna di questa lacerazione, e, in guerra, alle orribili sofferenze del gelo!», scrive nel Diario di guerra e di prigionia pubblicato per la prima volta nel 1955: scritto tra l'agosto del 1915 e il dicembre del 1919, in sei quaderni. Il terzo, 1916-1917, andò perduto con la rotta di Caporetto: conteneva anche le cronache delle giornate trascorse a Verona nel febbraio del '17.

È un incontro-scontro con una realtà deludente e la rabbia è veicolata verso i vertici che conducono il conflitto all'insegna dell'inesperienza e della poca perizia, a scapito delle truppe: «Quanta abnegazione è in questi uomini così sacrificati e così trattati! Essi portano il vero peso della guerra, peso morale, finanziario, corporale, e sono i peggio trattati... Chissà quelle mucche gravide, quegli acquosi pancioni di ministri e di senatori e di direttori e di generaloni: chissà come crederanno di aver provveduto alle sorti del paese con i loro discorsi, visite al fronte, interviste. (…) Ma pensino come è calzato il 5° Alpini!».
In quelle «giornate tragiche» in cui si domanda se non sia il caso di «farsi scoppiar la testa con un colpo di revolver» è il pensiero della madre e dei fratelli a fargli mantenere il contatto con la realtà. «Penso al mio Enrico che combatterà, alla mamma e alla Clara a casa sole, a me, debole come il più debole degli uomini, gettato da una vita orribilmente tormentata a questi giorni di squallore spirituale. Non mi manca il desiderio di combattere, il senso di sagrificio, ma questo si ottunde nei disappunti, nelle controversie, nel veleno della vita fangosa di questi giorni».

di Maria Vittoria Adami, Verona Fedele, 3 agosto 2014
Le foto sono state gentilmente concesse dal dottor Arnaldo Liberati, proprietario dell'Archivio Liberati di Villafranca

Nessun commento:

Posta un commento

Dove parlo di storia questa settimana

Martedì 3 dicembre alle 21 chiacchiero su Lucia con la professoressa Isabella Roveroni . Saremo al centro sociale di Quaderni di Villafranca...