29 luglio 2020

Silvia De Ambrosi, luce del carcere agli Scalzi

Silvia De Ambrosi
Colpiti dalla sventura, puniti dalla legge, reietti della società, ossessionati dalla visione di un triste destino. Ma con una fiammella di luce nelle loro vite: Silvia De Ambrosi (1865-1933), maestra delle carceri. Era lei l’ancora di salvezza dei detenuti degli Scalzi, tra il 1926 e il 1927. Uomini «abbandonati» in quel tetro luogo, ma disciplinati alunni della scuola per carcerati, diretta da don Giuseppe Chiot, ma sollecitata e condotta da De Ambrosi, dama di carità e generosa anima silenziosa di via Valverde e della parrocchia di San Luca. In quella scuola la donna insegnò Manzoni e Pascoli ai detenuti, ma anche a guardarsi dentro e a esprimere emozioni e speranze di un futuro e di un riscatto sociale. Lo raccontano le carte nella parrocchia di San Luca oggi guidata da don Carlo Vinco. Nell’archivio, un faldone, riordinato insieme ad altri dal professor Enrico Masiero, custodisce documenti, temi dei detenuti e relazioni della scuola delle carceri lasciate da De Ambrosi. «Anima eletta di bontà e carità cristiana», scrivono di lei i carcerati in una lettera di ringraziamento, «che tutte conosce le finezze per toccare il cuore e far sperare in un avvenire migliore».


Una lettera dei carcerati FOTOSERVIZIO MVA
Silvia allevia le loro «miserie», giacché «spes ultima dea non ci sorride più che languidamente, come sole offuscato da nebbia». L’unico conforto per i detenuti sono le sue lezioni: 288 ore in otto mesi durante i quali gli alunni scrivono temi su «Cosa farò quando sarò libero», lavorano a uno spettacolo teatrale per Natale («La follia insuperabile. Dio che si fa uomo»), e scrivono lettere a casa sollecitate dall’insegnante, nelle quali, con calligrafie esitanti, chiedono perdono e nutrono speranze su un ritorno alla vita, seppur con la paura di non saper riabilitarsi dall’onta del carcere. Trovano, soprattutto, la forza in lei che riesce nel miracolo di far breccia in anime che sembrano perdute: «Comprese la miseria e la colpa», si legge oggi sulla sua lapide al cimitero monumentale di Verona. «Il cuore sensibile a ogni bellezza effuse tra le ombre e le ombre credettero alla luce. Carcerati la chiamarono madre».
 Nata a Casale Monferrato il 6 maggio 1865, Silvia De Ambrosi arriva a Verona da bambina. Ha otto anni. Il padre è fuochista della ferrovia, la madre è cucitrice. Vivono in via Valverde. Durante la prima guerra mondiale Silvia è una «dama infermiera» all’ospedale militare e dal giugno 1915 ai primi del 1918 - prima di essere assegnata alla Croce Rossa - è anche alla sezione ospedaliera del «Collegio Angeli», dove, nel curare pazienti affetti da colera, tifo e meningite cerebrospinale, dimostra «zelo e amore, congiunti e illuminati da elevata intelligenza», si legge in una relazione su di lei. Silvia lavora «senza risparmiarsi sacrificio, non curante del pericolo di contagio, disbrigando i servizi più umili, con abnegazione e altruismo superiori a ogni elogio». Si prodiga per il sollievo degli infermi, disinteressata e senza vanagloria. Laboriosa e sollecita si guadagna la stima generale.
La targa della Casa del soldato
Il suo viene definito un «vero apostolato di fede patria», poiché sa rincuorare e animare. Con don Chiot dà vita anche alla Casa del soldato «Regina Margherita», di cui è conservata l’insegna in parrocchia. È un’abnegazione che riverserà, dieci anni dopo, nella scuola per i detenuti del carcere agli Scalzi, al fianco di don Chiot. Ai detenuti cerca di dare un appiglio per riprendere la vita. Dapprima si chiede come interessarli, perché la scuola non sia per loro fonte di noia ma «luce dell’anima». Forte del principio platonico che l’anima si educa al buono mediante il bello, Silvia inizia con letture educative seguite da conversazioni dalle quali riesce a comprendere il grado di cultura e l’intelligenza degli scolari. Comincia dalla religione, ma non quella «arida che non scende al cuore». «Questi uomini», scrive a don Chiot, «hanno bisogno di sentire la fede attraverso la parola armoniosa e profonda di un prosatore e poeta». E allora Manzoni con gli Inni Sacri, e Silvio Pellico, Tommaseo, Cantù, Padre Agostino da Montefeltro: «Penetrai nelle loro anime e vi ficcai l’immagine di Dio. Vidi quei visi pallidi, contratti dal dolore rigarsi di lagrime. La via era trovata, bastava parlare al loro cuore». E così Silvia passa all’italiano, a Pascoli, Carducci, De Amicis e Dante. Ha più di cento scolari che sanno superarsi e stupire anche per i risultati ottenuti. «Frequentarono con amore, con vivo desiderio di istruirsi» e sulla loro condotta «io non posso fare che il più alto elogio». «Rispetto, attenzione, amore allo studio, ecco la sintesi dell’anima dei miei scolari. Si commuovono parlando degli affetti famigliari e sentendo leggere pagine di eroismi compiuti dai nostri soldati».

La sua lapide al cimitero monumentale di Verona
E in quell’opera che non punta a inculcare aride cognizioni, ma a formare le anime, Silvia getta sementi per una vita nuova: «Hanno anime che si possono redimere, perché vennero aiutati e perché si diede loro una parola di bellezza di bontà, di fede. Bisogna sorreggerli perché non ricadano nel male». La scuola diventa un’opera di redenzione sociale che i carcerati mettono in pratica: «Quando sarò libero proseguirò il mio mestiere, sarò onesto e galantuomo», scrivono nei temi. «Mi comporterò bene, lavorerò tutto il giorno e non andrò mai fuori di casa per non manchar più». Chiedono perdono, vogliono perdonare. Si augurano di essere riaccettati in famiglia. Sperano. Come ha insegnato loro Silvia, che muore il 23 febbraio 1933, lasciando il seme germogliare nel loro animo. (Maria Vittoria Adami, L'Arena, 29 luglio, pag.44)

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