22 gennaio 2019

Il messaggio di Jan Palach



La lapide in piazza San Venceslao a Praga
È il pomeriggio del 16 gennaio 1969. A Praga, un ragazzo si toglie il cappotto in piazza San Venceslao. Lo posa con cura su una pietra con la sua borsa a tracolla, alza un contenitore sopra il capo, si cosparge di benzina e si dà fuoco. Diventa una fiaccola per illuminare la società affinché non ceda al ricatto di Mosca, imposto con i carri armati e 600mila militari nell'agosto precedente. Quella fiamma è Jan Palach (1948-1969), studente di filosofia all'università Carlo IV. Fa parte del blocco sociale dei giovani universitari che ha nutrito le speranze di un movimento di rinnovamento e visto il riscatto della sua generazione in Alexander Dubček, massima autorità dello Stato. Il segretario generale del Partito Comunista in Cecoslovacchia ha, infatti, tentato, l'anno prima, la riforma del «socialismo dal volto umano», arricchendo la dottrina sovietica dell'humus culturale nel quale il Paese si è alimentato ben prima dell'allineamento forzato all'Urss nel 1948.
Il programma di Dubček è un socialismo democratico che passa per libertà e diritti dell'uomo, e per l'abolizione della censura, e basato sui valori dell'umanesimo cristiano contrapposto alla deriva poliziesca e repressiva del socialismo sovietico. Ma quella spinta riformista del 1968, la Primavera di Praga, è stata interrotta dall'invasione sovietica che ha messo all'angolo Dubček.
Tomáš Masarik, primo presidente della Cecoslovacchia
La situazione a gennaio è pesantissima in uno Stato che non dimentica la sua storia, iniziata sulle ceneri dell'impero austroungarico nel 1918 e con la repubblica democratica parlamentare - sotto il primo presidente Tomáš Masaryk, liberal democratico - che diventa tra i Paesi più sviluppati d'Europa tra le due guerre, culturalmente vivace, infarcita delle dottrine dell'umanesimo di Jan Hus.
A questa storia si abbeverano Palach e gli studenti che chiedono innanzitutto l'abolizione della censura e annunciano di darsi fuoco uno alla volta se non avranno l'appoggio della popolazione.
«Palach è il portavoce di una gioventù maturata in tempi di cecità, ma che è cresciuta respirando la cultura ceca precedente masarikiana, di umanesimo e tolleranza», spiega lo storico Francesco Leoncini, tra i massimi conoscitori della storia della ex Cecoslovacchia. «Quando Mosca mette in sordina quel rinnovamento, Dubček viene visto come chi aveva capitolato. I giovani si oppongono a una politica rinunciataria e subalterna». Ma sarebbe stata possibile una resistenza? «No. L'invasione di 600mila soldati in un paese pacifico era imponente. Era una logica militare difficile da infrangere. Stati Uniti e Occidente non si opposero all'invasione, perché consideravano pericoloso questo nuovo socialismo. Nessuno dei partiti comunisti occidentali si mosse: il loro limite fu di non approfittare per staccarsi dal blocco sovietico innescando un nuovo socialismo occidentale che la Cecoslovacchia aveva proposto».
Palach muore il 19 gennaio in ospedale. Alla sua morte gli studenti riempiono la piazza davanti all'università chiedendo la fine della censura e accusando Dubček. In 350mila visitano la salma. E al corteo funebre scendono in strada anziani, accademici e operai.
Lo scossone alla coscienza nazionale ed europea, però, dura poco. Qualche giorno dopo si dà fuoco Jan Zaijz, ma la notizia trapela in ritardo. Altre due torce non destano attenzione. Il presidente Svoboda non approva. Dubček, ormai al capolinea politico, è a Bratislava e non interviene. Anche la sinistra europea si mostra tiepida: «All'epoca, da una parte la sinistra ignorò la Primavera di Praga guardando più al cosiddetto socialismo delle palme e di Guevara e non tenne conto del rinnovamento democratico del socialismo che portava avanti Praga; dall'altra si mostrò insofferente a Dubček e alla Cecoslovacchia accusati di voler tornare al capitalismo. Cosa non vera: si proponeva un socialismo diverso, un nuovo modello di democrazia nel rispetto della libertà e dell'uomo».
È così che fin da subito la memoria di Jan Palach diventa appannaggio della destra che ne fa un suo eroe (oggi trascinato dalla politica in un ciclone di polemiche come quello sollevato dal concerto del 19 gennaio a Verona, organizzato da forze di estrema destra con il patrocinio di Provincia e Comune, che ha attirato le ire di senatori cechi e studenti praghesi). Ma accade per un equivoco storico-politico: «Nel '69», spiega Leoncini, «quando all'università di Padova gli studenti chiesero che fosse intitolata un'aula a Jan Palach appoggiò l'idea solo la destra. Ma per l'errata convinzione che fosse un anticomunista. Invece Palach era contro quel socialismo repressivo che Dubček aveva capito».



Francesco Leoncini (Venezia, 1946) è tra i massimi conoscitori italiani della storia dell'ex Cecoslovacchia. Laureato in Scienze politiche a Padova, di posizioni cattoliche, si è occupato della storia dei Sudeti tedeschi e nel 1969 ha frequentato corsi di cecoslovacco a Bratislava. Ha insegnato dal 1970 al 2011 Storia dell'Europa Orientale, dei Paesi Slavi e dell'Europa Centrale all'università Ca' Foscari di Venezia. Nel 1998 ha fondato il Seminario Masaryk. Tra le sue pubblicazioni, ha curato L'opposizione all'Est 1956-1981, la sola raccolta organica in italiano di fonti e documenti sui movimenti alternativi nelle democrazie popolari, e Che cosa fu la Primavera di Praga? Idee e progetti di una riforma politica e sociali. Nel 2009 è uscito Alexander Dubcek e Jan Palach. Protagonisti della storia europea,. Ha tradotto dal ceco alcune lettere di Jan Hus dalla prigionia di Costanza e l'opera programmatica di Tomas Masaryk La Nuova Europa. Il punto di vista slavo. Il suo ultimo lavoro è Dubcek. Il socialismo della speranza. Immagini della Primavera cecoslovacca. Con un testo di Guenter Grass (Gangemi, Roma, 2018).

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