24 gennaio 2019

Hasanovic, sopravvissuto a Srebrenica

Arriva al cuore degli studenti con linguaggio pacato, senza mai proferire parole d'odio, per non perdere di vista il suo messaggio: «Never again». Mai più. Lo ripete al termine della sua testimonianza lasciata a una platea di centinaia di studenti dei licei Copernico e Maffei, nell'aula magna del polo Zanotto, all'università: «Mai più, nel nome di queste donne che non hanno mai parlato con la lingua dell'odio, nonostante avessero perso le loro famiglie», spiega indicando le madri e le vedove musulmane di Srebrenica, Bosnia, che ogni anno l'11 luglio si ritrovano a piangere gli 8.372 uomini assassinati nel genocidio del 1995, oggi ricordato da migliaia di cippi bianchi a Potocari, davanti alla fabbrica di accumulatori, allora sede delle truppe olandesi delle Nazioni Unite e oggi luogo simbolo dell'ultimo genocidio d'Europa.
È Hasan Hasanovic, 43 anni, musulmano bosniaco, autore di Surviving Srebrenica, scampato ai rastrellamenti, alle violenze, alla fame e alla sete, alla marcia della morte a piedi verso la zona libera di Tuzla, e al genocidio che gli ha tolto il fratello gemello, il padre e lo zio. Hasanovic da allora è testimone di Srebrenica e nei giorni scorsi è stato all'incontro all'università organizzato da Radici dei diritti dell'ateneo di Verona.
A Srebrenica, zona protetta dall'Onu durante la guerra in Bosnia, tra il 9 e l'11 luglio 1995 le truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić rastrellarono migliaia di musulmani bosniaci. Separarono le donne con i bambini dagli uomini. Le prime subirono stupri e deportazioni. I secondi, condotti su camion e pullman pubblici in scuole - dove oggi i bimbi fanno lezione - o in fabbriche, furono torturati e assassinati. Sepolti in fosse comuni e poi dissotterrati e risepolti perché i loro corpi fossero smembrati, annullati e irriconoscibili. Rendendo così ostiche le operazioni da anni avviate a Tuzla dove, grazie alle prove del Dna, si riconsegna un nome alle spoglie che vengono poi tumulate durante la cerimonia collettiva dell'11 luglio a Potocari.
Nella zona protetta di Srebrenica si erano rifugiati migliaia di bosniaci in fuga dal pericolo serbo: le truppe di Mladić (arrestato per genocidio e stupri etnici soltanto nel 2011) minacciavano di sfondare la zona. I cento caschi blu olandesi a Potocari, forse per timore, forse per le false garanzie di Mladić, fecero uscire dalla zona protetta i bosniaci di fatto consegnandoli ai serbi.
Sulle responsabilità dell'Occidente ancora si discute. «Trentamila bosniaci cercarono rifugio nella zona protetta di Srebrenica perché credevano che le Nazioni Unite li avrebbero protetti. Invece permisero che uomini e donne fossero separati. Era ovvio cosa sarebbe successo. Ma non fecero niente», spiega Hasanovic. Ed è tuttora aperta anche la battaglia dei testimoni come lui, oggi curatore del Memoriale per il genocidio di Potocari. È una lotta alla negazione di quei fatti e contro la paura di un passato che può ritornare: «Ancora non si è smesso di pensare alla costituzione di una Grande Serbia e stanno aspettando il momento giusto per farlo. Tuttora mi porto dietro quel senso di paura dell'11 luglio, quando i serbi avanzavano e nessuno sapeva cosa fare».
Oggi ha moglie e figlia ed è tornato a Srebrenica. Come si vive là?
La mia famiglia è a Tuzla, ma io, occupandomi del memoriale, sono sempre a Srebrenica che ora è nella parte di amministrazione serba e vivere in un posto dove la politica nega i fatti non è facile per i sopravvissuti. Ma non rinunciamo alla lotta per la verità.
Il genocidio di Srebrenica è un lutto collettivo femminile mai raccontato con odio. Sono fattori correlati?
Sì. Uno degli obiettivi dei serbi era di instillarci l'odio nei loro confronti, ma cedere a questo sarebbe stato fare il loro gioco e diventare da vittime a carnefici. È un fenomeno sociologico che si è ripetuto nella storia mondiale, dalla quale abbiamo imparato però a non cadere nell'errore. La nostra religione, inoltre, ci insegna l'amore e la tolleranza. La giustizia non c'è e non la troveremo a questo mondo.
Dove la troverete?
L'unica soluzione è la ricerca della giustizia ultraterrena. Srebrenica è stata concessa all'amministrazione serba e il 90 per cento degli assassini non sono finiti davanti ai tribunali, non è questa la giustizia vera. Ma un giorno tutti gli esseri umani dovranno rispondere a Dio. Questo ci tiene in vita.
A Srebrenica le Nazioni Unite si girarono dall'altra parte. E non fu solo un non vedere...
Tutti sapevano. In quell'estate bosniaci e croati avevano concluso offensive di liberazione con successo. Così il mondo diede mano libera ai serbi a Srebrenica per controbilanciare sul fronte militare e manifestare la propria neutralità. Quello fu il momento in cui perdemmo il senso della giustizia internazionale.
La negazione è la seconda fase di un genocidio. Quali alleati avete oggi per difendere la verità?
L'unica strada per i Paesi europei è emanare leggi che vietino di negare quanto accadde a Srebrenica o in Rwanda o in Darfur. Non deve esserci un vacuum legale che consenta a qualcuno di dire “stai mentendo”. Ma i politici non fanno il loro lavoro. Perciò l'unico contributo che possiamo avere è dal mondo dei media, dagli accademici e dalle scuole che facciano capire che c'è una linea rossa che non si può oltrepassare.
A chi dedica oggi la sua sopravvivenza?
Alle ottomila persone che non possono parlare. Il destino ha voluto che sopravvivessi. È stata una coincidenza, ma sono vivo per un motivo: raccontare quello che è successo, parlare per chi non può più farlo. Per me questo non è un lavoro. Non prendo denaro per giornate come questa. È la mia missione.

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