In occasione del Giorno del ricordo, pubblico qui un articolo che ho scritto un paio di anni per Verona Fedele, su input di un amico che voleva saperne di più...
Gente di Fiume. Senso di
responsabilità, maniche rimboccate, testa alta, bocca chiusa per non
recriminare – pur senza mai dimenticare – e voglia di chiudere un
capitolo per ricominciare, sempre però restando italiani. Questa è
la storia di tante famiglie dei quasi 350mila italiani di Istria,
Venezia Giulia e Dalmazia che tra il 1943 e il 1954 un giorno
lasciarono la loro casa per ritirarsi all'interno dei nuovi confini
disegnati per l'Italia: un salto nel buio dopo inaudite sofferenze e
persecuzioni. Il 10 febbraio, con la Giornata del Ricordo si
testimonia quell'esodo, ma anche la storia di un «popolo» che è
riuscito a ritagliarsi un piccolo spazio, nei nuovi luoghi di
approdo, lasciando un segno della sua operosità. Come quello donato
a Verona.
Molte sono le attività avviate o
gestite dagli esuli. E chi ama il cinema sappia che sedendo sulle
poltrone della spaziosa sala cinematografica Fiume gode del frutto
del lavoro di un gruppo di esuli fiumani che lo eresse nei primi anni
Sessanta.
Delle circa 800 famiglie profughe
giunte a Verona, infatti, un centinaio proveniva dalla città sul
mare Adriatico. C'era anche Alberto Woloschin, nel 1947, al quale a
Fiume furono requisite un'officina di corriere e una villa sanatorio.
Accusato dai titini di essere un «sabotatore del popolo» lasciò la
sua terra con moglie e figlia per giungere a Verona, in via Marsala,
dove fondò un'impresa edile – neanche a dirlo – chiamata
Resurgo. Fu lui, nel 1956, con Albina Repic Cussar, Mario Rolando e
Nerea Derencin Rolando – tutti fiumani – ad acquistare un terreno
nei pressi di San Zeno, per costruire e gestire un cinematografo:
Nerea aveva una licenza fiumana per questa attività, allora molto
costosa, gli altri misero il denaro insieme ai fratelli Adolfo e
Giuseppe Tiozzo e a Giambattista Bertoldi. «Era un modo per
integrare le entrate di famiglia», spiega oggi la figlia Anna
Maria Woloschin, classe 1932 e madre di Francesca Briani
presidente dell'associazione Venezia Giulia Dalmazia per Verona.
A questo scopo nacque nel 1958 la
società Carnaro che costruì in capo a due anni il cinema Fiume.
«Pochi veronesi sanno che la storica sala deve il suo nome al
tributo che alcuni esuli fiumani vollero riconoscere alla loro
amatissima città d'origine che, purtroppo, in alcuni casi non
riuscirono a rivedere», spiega Briani: «È lì che nel 1964 vidi i
primi film per mano di quel meraviglioso nonno Woloschin con il quale
trascorrevo la maggior parte del mio tempo. Ricordo le nuvole di
sigaretta volteggiare nel fascio di luce del proiettore. Fu la
nostalgia della propria città e il desiderio di farne rivivere un
piccolo angolo a Verona che portò i fiumani a costruire il cinema.
Lì vive una parte delle loro anime».
Arrivati alla spicciolata a Verona i
fiumani dapprima non ebbero tempo e possibilità di riunirsi e
ritrovare una – seppur piccola – comunità: dovevano ritagliarsi
un posto in un Paese già martoriato dalla guerra dalla quale usciva
sconfitto; erano additati come fascisti o slavi; non erano graditi a
una popolazione stremata dal conflitto e che in loro vedeva nuovi
problemi. Nei primi tempi, dunque, i fiumani dovettero darsi da fare:
cercare un alloggio, non sempre facile da ottenere; trovare un
lavoro; dar da mangiare a moglie e figli che dovevano anche andare a
scuola; fingere che non facessero male i ricordi di Fiume, città sul
mare dall'aria calda e salmastra, vivace di cultura respirata nei
teatri, nelle sale da musica, nei caffè, spenta da lutti,
persecuzioni, sofferenze e distacchi, requisizioni di attività e
stabilimenti, e dal trattato di Parigi, il 10 febbraio 1947, che
sancì il definitivo passaggio dell’Istria alla Jugoslavia e
l'acutizzarsi di pulizie etniche, rastrellamenti e fucilazioni,
infoibamenti di militari, religiosi e civili ed efferatezze
inenarrabili a opera dei titini.
«A Verona eravamo tutti occupati a
sbarcare il lunario», raccontano le fiumane scaligere Marina
Smaila, Anna Maria Woloschin, Maria Luisa Budicin e Mary
Nacinovich con Luigi Santillo. «Ma ogni anno per San
Vito, il 15 giugno, patrono di Fiume, ci radunavamo alla Prefettura.
Era un punto di riferimento perché vi lavorava il ragioniere Arturo
Fabietti che curava le nostre pratiche. Dopo la messa si andava al
caffè Dante». Ma pian piano la vita ingranò per loro. Negli anni
Sessanta arrivò il Fiume e altri luoghi divennero punto di incontro,
come il Superbar in via Alberto Mario: «Gli uomini si riunivano lì,
parlavano di Fiume tutto il tempo e portavano i nipotini. A San
Nicola, invece, che per i fiumani porta i regali ai bambini, le
famiglie si trovavano insieme per festeggiare. E poi si facevano
grandi cantate nella trattoria al Cesiolo».
Molti giunsero a Verona perché c'erano
diversi ingegneri fiumani che furono per loro un appoggio concludendo
un calvario passato anche per i campi profughi, come per Smaila e
Nacinovich, cugine, la prima in campo a Mantova, la seconda in
Toscana. Per entrambe arrivare a Verona significò trovare una città
più disponibile. «A Mantova papà trovò tante porte chiuse»,
racconta Smaila. «A Verona c'era Woloschin: “Finché io lavorerò,
lei lavorerà” gli disse. Solo allora, dopo mesi di disperazione,
vidi mio padre sereno. E tornò a casa con tre garofani rossi per la
mamma. A Mantova le compagne mi trattavano male, mi dicevano che ero
slava. A Verona è stata un'altra vita».
«Verona ci ha accolto, ci ha voluto
bene perché ha capito che eravamo gente seria, onesta, operosa,
responsabile. Ha capito il nostro temperamento. Dopo tante amarezze.
Tutti ci avevano abbandonati, eravamo allo sbaraglio», conclude
Nacinovich. «Abbiamo lasciato Fiume portando con noi l'attaccamento
al lavoro, alla famiglia, il senso del dovere. Nessuno ha potuto mai
toglierceli, così come i ricordi di quella città dove approdavano
navi da tutto il mondo tra profumi salmastri e l'olezzo degli
allori».
Maria Vittoria Adami
Nessun commento:
Posta un commento