10 febbraio 2020

Gente di Fiume


In occasione del Giorno del ricordo, pubblico qui un articolo che ho scritto un paio di anni per Verona Fedele, su input di un amico che voleva saperne di più...

Gente di Fiume. Senso di responsabilità, maniche rimboccate, testa alta, bocca chiusa per non recriminare – pur senza mai dimenticare – e voglia di chiudere un capitolo per ricominciare, sempre però restando italiani. Questa è la storia di tante famiglie dei quasi 350mila italiani di Istria, Venezia Giulia e Dalmazia che tra il 1943 e il 1954 un giorno lasciarono la loro casa per ritirarsi all'interno dei nuovi confini disegnati per l'Italia: un salto nel buio dopo inaudite sofferenze e persecuzioni. Il 10 febbraio, con la Giornata del Ricordo si testimonia quell'esodo, ma anche la storia di un «popolo» che è riuscito a ritagliarsi un piccolo spazio, nei nuovi luoghi di approdo, lasciando un segno della sua operosità. Come quello donato a Verona.
Molte sono le attività avviate o gestite dagli esuli. E chi ama il cinema sappia che sedendo sulle poltrone della spaziosa sala cinematografica Fiume gode del frutto del lavoro di un gruppo di esuli fiumani che lo eresse nei primi anni Sessanta.
Delle circa 800 famiglie profughe giunte a Verona, infatti, un centinaio proveniva dalla città sul mare Adriatico. C'era anche Alberto Woloschin, nel 1947, al quale a Fiume furono requisite un'officina di corriere e una villa sanatorio. Accusato dai titini di essere un «sabotatore del popolo» lasciò la sua terra con moglie e figlia per giungere a Verona, in via Marsala, dove fondò un'impresa edile – neanche a dirlo – chiamata Resurgo. Fu lui, nel 1956, con Albina Repic Cussar, Mario Rolando e Nerea Derencin Rolando – tutti fiumani – ad acquistare un terreno nei pressi di San Zeno, per costruire e gestire un cinematografo: Nerea aveva una licenza fiumana per questa attività, allora molto costosa, gli altri misero il denaro insieme ai fratelli Adolfo e Giuseppe Tiozzo e a Giambattista Bertoldi. «Era un modo per integrare le entrate di famiglia», spiega oggi la figlia Anna Maria Woloschin, classe 1932 e madre di Francesca Briani presidente dell'associazione Venezia Giulia Dalmazia per Verona.
A questo scopo nacque nel 1958 la società Carnaro che costruì in capo a due anni il cinema Fiume. «Pochi veronesi sanno che la storica sala deve il suo nome al tributo che alcuni esuli fiumani vollero riconoscere alla loro amatissima città d'origine che, purtroppo, in alcuni casi non riuscirono a rivedere», spiega Briani: «È lì che nel 1964 vidi i primi film per mano di quel meraviglioso nonno Woloschin con il quale trascorrevo la maggior parte del mio tempo. Ricordo le nuvole di sigaretta volteggiare nel fascio di luce del proiettore. Fu la nostalgia della propria città e il desiderio di farne rivivere un piccolo angolo a Verona che portò i fiumani a costruire il cinema. Lì vive una parte delle loro anime».
Arrivati alla spicciolata a Verona i fiumani dapprima non ebbero tempo e possibilità di riunirsi e ritrovare una – seppur piccola – comunità: dovevano ritagliarsi un posto in un Paese già martoriato dalla guerra dalla quale usciva sconfitto; erano additati come fascisti o slavi; non erano graditi a una popolazione stremata dal conflitto e che in loro vedeva nuovi problemi. Nei primi tempi, dunque, i fiumani dovettero darsi da fare: cercare un alloggio, non sempre facile da ottenere; trovare un lavoro; dar da mangiare a moglie e figli che dovevano anche andare a scuola; fingere che non facessero male i ricordi di Fiume, città sul mare dall'aria calda e salmastra, vivace di cultura respirata nei teatri, nelle sale da musica, nei caffè, spenta da lutti, persecuzioni, sofferenze e distacchi, requisizioni di attività e stabilimenti, e dal trattato di Parigi, il 10 febbraio 1947, che sancì il definitivo passaggio dell’Istria alla Jugoslavia e l'acutizzarsi di pulizie etniche, rastrellamenti e fucilazioni, infoibamenti di militari, religiosi e civili ed efferatezze inenarrabili a opera dei titini.
«A Verona eravamo tutti occupati a sbarcare il lunario», raccontano le fiumane scaligere Marina Smaila, Anna Maria Woloschin, Maria Luisa Budicin e Mary Nacinovich con Luigi Santillo. «Ma ogni anno per San Vito, il 15 giugno, patrono di Fiume, ci radunavamo alla Prefettura. Era un punto di riferimento perché vi lavorava il ragioniere Arturo Fabietti che curava le nostre pratiche. Dopo la messa si andava al caffè Dante». Ma pian piano la vita ingranò per loro. Negli anni Sessanta arrivò il Fiume e altri luoghi divennero punto di incontro, come il Superbar in via Alberto Mario: «Gli uomini si riunivano lì, parlavano di Fiume tutto il tempo e portavano i nipotini. A San Nicola, invece, che per i fiumani porta i regali ai bambini, le famiglie si trovavano insieme per festeggiare. E poi si facevano grandi cantate nella trattoria al Cesiolo».
Molti giunsero a Verona perché c'erano diversi ingegneri fiumani che furono per loro un appoggio concludendo un calvario passato anche per i campi profughi, come per Smaila e Nacinovich, cugine, la prima in campo a Mantova, la seconda in Toscana. Per entrambe arrivare a Verona significò trovare una città più disponibile. «A Mantova papà trovò tante porte chiuse», racconta Smaila. «A Verona c'era Woloschin: “Finché io lavorerò, lei lavorerà” gli disse. Solo allora, dopo mesi di disperazione, vidi mio padre sereno. E tornò a casa con tre garofani rossi per la mamma. A Mantova le compagne mi trattavano male, mi dicevano che ero slava. A Verona è stata un'altra vita».
«Verona ci ha accolto, ci ha voluto bene perché ha capito che eravamo gente seria, onesta, operosa, responsabile. Ha capito il nostro temperamento. Dopo tante amarezze. Tutti ci avevano abbandonati, eravamo allo sbaraglio», conclude Nacinovich. «Abbiamo lasciato Fiume portando con noi l'attaccamento al lavoro, alla famiglia, il senso del dovere. Nessuno ha potuto mai toglierceli, così come i ricordi di quella città dove approdavano navi da tutto il mondo tra profumi salmastri e l'olezzo degli allori».
Maria Vittoria Adami

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