15 dicembre 2015

Alessandro Barbero, a 200 anni dalla battaglia di Waterloo

Ascoltandolo par di rivivere atmosfere medievali o le grandi battaglie che sconvolsero l'Europa nell'età moderna. Studioso che sa farsi leggere – nei suoi saggi come nei romanzi – ma che sa anche affascinare il pubblico dei festival culturali o dei programmi televisivi, lo storico piemontese Alessandro Barbero, venerdì 11 dicembre, era a Verona, alla Società Letteraria, ospite dell'Istituto per la Storia della Resistenza e dell'età contemporanea. Con la conferenza Waterloo, i duecento anni della battaglia che ha cambiato l'Europa ha fatto calare gli ascoltatori nella campagna della Vallonia, al 18 giugno del 1815, quando la sconfitta di Napoleone contro gli eserciti della settima coalizione, guidati dall'inglese duca di Wellington e dal feldmaresciallo prussiano von Blücher, preludio dell'esilio a Sant'Elena, si scolpì nella Storia. 

Professor Barbero, perché Waterloo traccia una linea di demarcazione nella storia europea?
A Waterloo si materializza un paradosso. Nell'Europa di fine Settecento si vive la contraddizione di aver avuto una rivoluzione francese – forza travolgente trionfante che detta il futuro e cambia la storia del mondo – accompagnata da uno dei ricorrenti tentativi di egemonia imperiale sul continente, stavolta avanzato dall'impero napoleonico. Ebbene, il paradosso è che il tentativo egemonico, nato nel Paese della Rivoluzione, viene bloccato dall'unico Stato, l'Inghilterra, che non conosce la Rivoluzione ed è per questo un paese arretrato e arcaico dal punto di vista legislativo, sociale, di costume, pur essendo il più moderno tecnologicamente. L'esercito inglese rappresenta una società antiquata: un soldato semplice quasi mai è promosso a ufficiale e il duca di Wellington, come tanti, fa carriera militare comprandosi i gradi. L'esercito di Napoleone è invece il più moderno del mondo: i tre quarti degli ufficiali sono soldati semplici promossi col merito, e ciascuno si è fatto da sé. Eppure a Waterloo vince l'arcaico. È un momento cruciale e contraddittorio.
Quasi una conferma del processo di Restaurazione in corso che tenta di cancellare la Rivoluzione?
Certo, Waterloo riporta indietro l'orologio. Nei trent'anni di Restaurazione la vita di intere generazioni è trasformata in maniera decisiva. I valori liberali della Rivoluzione sono rigettati indietro e serviranno, per recuperarli, un'altra intera generazione e altre rivoluzioni, del '30 e del '48, che non ci sarebbero state.
Cosa ci dice Waterloo 200 anni dopo?
Ci dice che la storia è intessuta di contraddizioni. E che quando la si studia, non si deve mai parteggiare né cercare chi ha ragione e chi torto. Altrimenti non si capiscono quegli uomini. Tutti coloro che hanno combattuto a Waterloo erano convinti, da entrambi i lati, di combattere contro i tiranni per la libertà. Col risultato di ventimila morti in un giorno, su un fronte di appena quattro chilometri. Waterloo è il simbolo della meraviglia e della tragedia di questo continente. L'Europa ha creato qualcosa di grandioso, ma l'ha fatto al tempo stesso nel sangue e nella violenza.
Giocando con la storia, cosa sarebbe accaduto se Napoleone avesse vinto?
Forse sarebbero arrivati gli austriaci e i russi, e avrebbe perso comunque. Ma se avesse vinto, beh, per una trentina d'anni ci sarebbe stato un mondo diverso. L'Italia sarebbe uscita prima dall'arcaismo senza bisogno del grande momento di riscatto del Risorgimento. Avrebbe avuto Stati più moderni, non ci sarebbero stati Mazzini e la carboneria. Sarebbe rimasto Gioacchino Murat al posto dei Borboni e il Regno di Napoli sarebbe stato modernizzato. Quello dei Savoia sarebbe stato più liberale. Non ci sarebbero stati i moti del '30 e del '48, ma poi le spinte sotterranee, attorno al 1850, avrebbero riportato la storia nella stessa direzione di quanto accaduto in seguito.
Quanto dobbiamo oggi a Napoleone, nel bene e nel male?
Tantissimo. Certo, era un avventuriero, arrivista, tiranno e traditore – in parte – degli ideali della rivoluzione portati dai suoi soldati sulla punta delle baionette. Rubava opere d'arte e reprimeva le opposizioni. Ma, laddove sono arrivati i francesi, sono arrivate idee nuove di uguaglianza tra cittadini e tra religioni, e di giustizia per tutti; e tribunali, scuole, licei, università, un'amministrazione centralizzata e le elezioni, anche se truccate. Tutti questi aspetti risvegliarono l'Europa. Guai se non ci fossero stati.
Proprio la Francia delle libertà e dell'uguaglianza si chiude oggi, quasi snaturandosi, per effetto del terrorismo. Questo perché la storia non ci ha detto abbastanza?
La storia non ha risposte pronte, è caotica, non ha leggi. Vi confluiscono tutte le vite; non dà ricette, ma esempi e indizi che aiutano a capire cosa è meglio o peggio fare. I valori che la Francia incarna ce li siamo inventati noi, nella nostra civiltà, e quando li portiamo agli altri, senza pensare se le altre civiltà siano in un momento adatto per riceverli, sbagliamo. E poi occorrono secoli per venirne fuori. Questo ci insegna la storia. Guardiamo ai neri d'America: un secolo e mezzo fa è finita la schiavitù, eppure è un problema in parte irrisolto. Oggi ci accorgiamo che non basta accogliere gli immigrati e che quello che ci sembra il massimo – la Francia che dice agli algerini «Voi siete cittadini francesi» – non è sufficiente. Ma cosa si debba fare, certamente non lo sa lo storico.
Il Barbero romanziere, invece, come nasce?
Dalla passione, nata fin da ragazzino, per Napoleone (il mio primo romanzo, del 1995, Bella vita e guerre altrui di Mr Pyle, gentiluomo, è ambientato in quell'epoca) e per la storia militare. Ho sempre raccolto molto materiale, che non potevo usare perché di mestiere mi occupo di Medioevo. Così ho pensato potesse diventare romanzo.
Di cosa parla il suo ultimo, Le Ateniesi?
Della democrazia dell'Atene classica, messa in pericolo dai colpi di Stato, e della violenza maschile sulla donna in una società, quella della Grecia antica, maschilista, ma che al tempo stesso immagina, come nella Lisistrata di Aristofane, che le donne prendano il potere. Nel romanzo si intrecciano tutti questi temi.
Oggi grazie a festival e tv lo storico è una figura popolare. È un nuovo corso dell'Italia verso la cultura?
Lo storico ora ha un suo pubblico, non solo di lettori, ma ampliato da festival, conferenze e tv. C'è un rapporto diretto col pubblico che può sentir parlare lo storico oltre che leggerlo. È una bella sfida per chi fa il nostro mestiere. Ma rimane un fenomeno limitato: Rai storia fa centomila spettatori, una piccola percentuale sulla grande platea televisiva.
Maria Vittoria Adami
(da L'Arena, 11 dicembre 2015)

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