7 luglio 2014

La Grande Guerra secondo Bubola


 di Maria Vittoria Adami, Verona Fedele, 6 luglio 2014

«Buche imbottite di fanti, minuscole ampolle di vita in quel cimitero senza nome» di «morti insepolti e vivi sepolti» sono le trincee narrate da Carlo Salsa, l'autore di uno dei più toccanti volumi di memorie della Grande Guerra, «Trincee», che ben descrive l'inenarrabile accaduto cento anni fa tra gallerie ad alta quota rubate alla roccia e in cunicoli di fango, dove dalle «pareti pantanose» affioravano «scarpe chiodate, involti rigonfi, dita adunche di gente sepolta o sprofondata lentamente nella terra» e dove un ginocchio dissotterrato per metà serviva come punto di ritrovo durante la notte, per la distribuzione del caffè e dei viveri: era «il caffè del Genoeucc» per i soldati lombardi.
Si sdrammatizzava, con incosciente sarcasmo, per esorcizzare la paura della morte sul Carso, sugli Altipiani e sulle Dolomiti, ché a spiegare la vita di trincea non c'erano parole. Ci provano prose sobrie, ma meglio riescono i versi ermetici di Ungaretti o quelli asciutti di Rebora. E al tentativo di narrare la guerra partecipa anche la cultura popolare, messa in musica nei canti di un repertorio nel quale ha frugato il cantautore veronese Massimo Bubola per fissare il ricordo nel suo album, «Il testamento del capitano».


Uscito nell'anno del centenario della Grande Guerra e seconda tappa di un percorso iniziato nove anni fa con «Quel lungo treno», il Cd è uno scrigno di canzoni centenarie che ancora fanno vibrare il cuore, riprese e riarrangiate da Bubola e integrate con alcuni suoi nuovi brani che cantano il dolore, l'amore, la nostalgia dei soldati al fronte e di quella «meglio gioventù che va sotto terra».
«Il testamento del capitano» diventa così un archivio storico che mette in salvo i canti della tradizione popolare e alpina come «Ta pum», «Sul ponte di Perati», «Monti Scarpazi», «Bombardano Cortina», «La tradotta» e «Il Testamento del Capitano» appunto. Ripercorre la geografia della Grande guerra, dal monte Sabotino a Nervesa, lungo la linea del Piave «cimitero della gioventù», in quella «terra di nessuno» da lì a Caporetto, e da Torino, dove partiva la tradotta, a Cortina, dalle Tofane a San Vito.
I brani, che insieme fanno il paio con quelli “salvati” dall'album del 2005, si alternano a quelli altrettanto accorati scritti da Bubola, come «Neve su neve», pensata dall'autore durante una passeggiata alle gallerie del Pasubio. È il dolce canto di un alpino caduto che chiama a sé la fidanzata: «Cade neve sopra neve/ tira il vento su di me/ e nel grande firmamento/ tornerò vicino a te»; con la la processione di «sguardi senza meta» di «Da Caporetto al Piave» Bubola affronta invece un tema rimasto in sospeso nove anni fa: le ripercussioni della rotta del '17 sulla popolazione civile; mentre in «L'alba che verrà» canta il soldato partito ragazzo, cresciuto «sotto il peso di acqua e cielo, respirando terra e gas» e sopravvissuto grazie a una foto nel paltò.

Ma è con «Vita di trincea» che il cantante traduce in pochi versi il caotico vortice del fronte, alla stregua di un soldato-poeta novecentesco. Là, la paura della morte è una cappa asfissiante che non si allenta mai perché «c'è un nemico dietro ogni angolo» e «la vita è un battito/la morte un attimo». «Il tempo ruzzola e la mente sbambola», «le bombe fischiano, le pietre schizzano», «dal telegrafo gli ordini fioccano/i tacchi sbattono, le fibbie scattano». Tra «pidocchi e spari/fango e pugnali/tabacco e grappa», la trincea è un confuso microcosmo affollatissimo di vivi e morti, di cuori traboccanti di sentimenti nel silenzio della notte: «c'è un amore dietro ogni angolo/amore nottambulo, il cuore sonnambulo». E poi lo scatto: «Domani scalpita/ si va all'assalto, l'ultimo balzo/ la mia bandiera lacera e nera/ e al mio cecchino farò l'inchino».
L'amore si fa dolore in «Monti Scarpazi» affidata alla voce di Lucia Miller per raccontare di colei che si reca in montagna a cercare il suo amato, trovandovi però solo la croce.

L'album è un'antologia di temi chiave delle trincee, la cui gerarchia, a metà tra retorica e cuore, si ritrova nel «Testamento del capitano» che manda dire ai suoi alpini di fare del suo corpo cinque pezzi: per la Patria, per il battaglione, per la mamma, per «la mia bella» e per le montagne, nemiche, queste, altrettanto aspre, ma anche culle di speranze e di scorci d'alta quota silenziosi e mozzafiato.
La «morosa», la mamma, la paura della morte sono temi che ricorrono. «Ma in queste canzoni non c'è mai odio per il nemico – spiega Bubola –. Il soldato non è pacifista, ma neppure guerrafondaio. Emerge solo il disagio di poveri contadini, sbalzati sul fronte in luoghi sconosciuti contro coetanei che facevano lo stesso mestiere». Il cd è un abbraccio su di loro, indistintamente, a prescindere dal fronte.
Perpetuare il patrimonio di tradizioni e cultura popolare della guerra è una spinta cui Bubola non è nuovo: decenni fa scrisse la sua prima canzone a tema, «Andrea», cantata poi da Fabrizio De André. Il cantautore definisce questa passione una forma di imprinting guadagnata nel suo paese d'origine, Terrazzo, e respirata in famiglia: si concentra su canzoni che da piccino sentiva cantare dal padre, insieme ai racconti del nonno bersagliere sul Piave e sul prozio sepolto al sacrario del monte Grappa. «È una cultura che fa parte del mio Dna. Mio padre era maestro, la gita sul Piave era un classico». Poi è andato a piedi per trincee, dall'Ortigara ad Asiago, dalla Val San Nicolò alla Marmolada.

«È un repertorio che conosco molto bene. Ho solo arrangiato un po' le canzoni, riportando ai testi l'emotività individuale di ciascuno». L'album ricostruisce il percorso musicale folk del Triveneto e della Lombardia: «Sono canzoni che non si dimenticano per la bellezza delle melodie e la qualità dei testi. È una forma di letteratura popolare e non accademica, nata da persone semianalfabete, ma che ha una potenza sconosciuta alla poesia ufficiale. Eppure non vi si presta la dovuta attenzione: cinema e televisione non si occupano dei nostri territori, che pure hanno una storia vivace e hanno pagato molto durante la guerra. L'attuale sottocultura televisiva smemorizza il paese e non abbiamo un istituto nazionale che custodisca in maniera organica la memoria popolare. Ma cultura e memoria sono un antibiotico contro la stupidità». Il Cd colma queste lacune, tornando all'origine: «Ci sono canzoni scritte per essere accompagnate da strumenti basici (che si potevano portare in trincea come l'armonica), attinge dai cori alpini e dalla letteratura delle forme semplici». E il grande debito contratto con la cultura corale alpina Bubola lo rende con i due pezzi che portano la sua firma e chiudono l'album, «Rosso su verde» e «Noi veniàm dalle pianure», lasciati all'interpretazione vibrante del coro Ana di Milano, diretto dal maestro Massimo Marchesotti.

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