22 giugno 2014

Ad Asiago paesaggi di guerra


di Maria Vittoria Adami, L'Arena, 21 giugno 2014

Le alluvioni riportano a galla le mine del conflitto che lacerò i Balcani negli anni Novanta, come le maree in Normandia dal fondo limaccioso dell'oceano rigurgitano sulle spiagge cingoli arrugginiti di anfibi americani. È la natura, che rende all'uomo ciò che egli stesso ha conficcato nella terra, disperso in mare o incastonato nella roccia di montagna, guerra dopo guerra. Abbracciando armamenti e casematte con grovigli di boschi o seppellendoli nel sottosuolo sotto manti d'erba, la natura ha sempre posto rimedio agli squilibri provocati dall'uomo, in un difficile compromesso che si è complicato dove il conflitto ha fatto irruzione non solo nell'ecosistema, ma nel mondo civile, debordando dai fronti.
È il processo inaugurato con la Grande Guerra e che ha la sua summa nell'Altopiano di Asiago, l'isola a mille metri d'altezza sconvolta all'improvviso dal più nefasto dei temporali bellici.
Sulla trasfigurazione, non solo ambientale ma anche sociale di quell'habitat, parla, lasciando il racconto alle immagini, il volume fotografico «Guerra sull'Altopiano» (Cierre edizioni), a cura di Vittorio Corà e Mauro Passarin, con un saggio introduttivo di Mario Isnenghi e un contributo di Giuseppe Sandrini.
Quarantuno mesi di combattimenti sull'Altopiano dei Sette Comuni imposero un cambiamento radicale a quell'isola di prati e pascoli, coronata dalle vette a strapiombo su Veneto e Trentino, che divenne isola di guerra, violata da una straordinaria concentrazione di masse di soldati e armamenti, sin dal maggio del 1915. E quando le prime cannonate che un anno dopo annunciarono la Strafexpedition austriaca, abbattendosi su Asiago e costringendo una popolazione in panico a un repentino e totale sfollamento delle contrade, il dominio militare fu completo.
Il presidio delle quote a sud da parte delle truppe italiane, e di piccoli contingenti inglesi e francesi, e a nord dei soldati austroungarici, siglò la fine di un mondo dedito all'alpeggio e alla placida vita di montagna. Si aprì quello di paesi devastati e ridotti a cumuli di macerie (significativa è l'immagine di Gallio del 1918), di boschi e pascoli distrutti, mentre un esodo forzato di popolazioni stipate sui carri scendeva percorrendo le strade che a ritroso imboccavano fiumane di soldati, autocannoni Ansaldo e grosse artiglierie. Invaso da militi e costellato di mitragliatrici, quel quieto microcosmo parlò tante lingue e vide volti di etnie diverse, nel tintinnare di elmi, scatolame e proiettili giganti Skoda. Divenne un territorio militarizzato in cui gli schieramenti si fronteggiavano ad Asiago, Canove, Cesuna, Gallio e Foza. Tumulti di bombe e fuoco di fucileria sostituirono i rintocchi delle campane e i campanacci delle vacche da latte, mentre il Genio militare costruiva strade abbarbicate sulla roccia, gallerie e trincee; nelle retrovie sorsero ospedali da campo e cimiteri improvvisati, man mano che le battaglie infuocavano. Mutuando da Carlo Emilio Gadda, si aveva la misura dell'intensità della lotta dall'aspetto della foresta: «pini stroncati, massi proiettati, frantumi di roccia e schegge di proietti: cenci sanguinosi; un odore acre di morte: qua e là testimoniata dai cadaveri in abbandono», che i vivi non avevano il tempo di fermarsi a guardare.
Cambiò l'assetto del territorio, segnando la storia personale e collettiva della popolazione che, tolta la «crosta della storia politica della guerra», scrive Isnenghi, «è la «storia sociale dell'uomo in guerra», in un conflitto giocato tra «terra, aria, fuoco e (poca) acqua».
Teatro di sanguinose battaglie, l'Altopiano, con la Strafexpedition del '16, la Battaglia dell'Ortigara e quella di Natale del '17, quella del Solstizio del '18 (estremo tentativo dell'Impero asburgico di sfondare le difese italiane), diventerà un mondo a sé stante, con un concentrato di vita di guerra che trasudava dal sottosuolo anche negli anni successivi, quando gli ordigni inesplosi facevano strage di uomini e bestiame (Canove 1919).
L’inedito repertorio iconografico del volume, proveniente da importanti archivi italiani ed europei, illustra le diverse fasi del conflitto e le conseguenze sul piano sociale economico e identitario di quel baluardo strenuamente difeso dagli italiani, per non precipitare a valle aprendo un varco all'Austria verso Venezia, oltre i confini ridisegnati nel 1866.
Rimangono oggi, là dove la natura è ricresciuta rigogliosa su crateri di bombe o rimpolpando boschi scheletrici, le rovine delle fortezze, i resti delle trincee, ruderi di impianti idrici e teleferiche, baraccamenti e reti stradali, cimiteri e lapidi. Un lascito di rottami e ferraglia che fece vittime anche a guerra finita (nel 1920 nacque il Consorzio rottami metallici che bonificò trincee e depositi), ma anche una fonte economica per chi, davanti alla crisi degli anni Venti, non volle abbandonare di nuovo la sua terra, in cerca di fortuna, segnando un chiaro senso di appartenenza all'Altopiano. Chi, dunque, rischiando la vita, divenne un «recuperante» rivendendo quei rottami. È il capitolo finale di una storia che il libro racconta per immagini di luoghi che saranno per sempre sinonimi di Grande Guerra, dall'Ortigara al Cengio, da monte Interrotto a Cima 12, immortalati dalle penne di Gadda, Stuparich, Frescura, Monelli, Lussu, e da una memorialistica che, assieme agli scatti, rende ogni giorno all'uomo, come fa la natura, il ricordo di quella catastrofe di inizio Novecento.

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