27 aprile 2014

Sarajevo, tre anni di assedio mentre il mondo "dormiva"



(di Maria Vittoria Adami, Verona fedele, 27 aprile 2014)

I fiori sono freschi al monumento sulla Maršala Tita, dedicato agli oltre 1600 bambini morti durante l'assedio di Sarajevo, cominciato il 6 aprile di 22 anni fa. Pur passata per le lacerazioni post conflitto di definizione di colpe e colpevoli – passaggio obbligato delle guerre civili – Sarajevo è una città ricostruita oggi, che va avanti e che ricorda.
Lo fa con i fiori vicini alle colonnine del monumento che riportano i nomi dei bambini nati alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta e Novanta, morti tutti tra il 1992 e il 1995 (è il dato più sconvolgente nello scorrere le righe). Sarajevo ricorda anche con il museo della guerra, sulla Zmaja od Bosne, ricavato al piano superiore di un palazzo degli anni Settanta martoriato dai bombardamenti e lasciato fatiscente per ricordare ai visitatori i danni dell'assedio. E ricorda con il piccolo museo allestito nel borgo di case sperduto a ridosso dell'aeroporto, Butmir, all'ingresso del tunnel che salvò vite e rifornì di cibo e armi la città. Lo fa, infine, col cimitero dei martiri di Kovači, sull'altura sopra la città vecchia, dove campeggia la tomba del presidente Alija Izetbegović (1925-2003), tra cippi bianchi di bosniaci musulmani uccisi da cecchini, dalla fame e dalla sete in un assedio durato quasi quattro anni che mieté oltre diecimila vite, lasciò cinquemila orfani e 64mila feriti e mutilati, riducendo Sarajevo a un ghetto di malati, poveri e anziani.
Doveva essere una delle tante guerre lampo della storia dell'umanità. Quando il 6 aprile 1992 Radovan Karadžič (presidente della repubblica serba di Bosnia) tenta di declinare in pratica le ipotesi di spartizione della Bosnia tra serbi e croati, circondando Sarajevo, sostiene di vincere in capo a due ore. Ne è convinta anche l'Armata popolare jugoslava (a sostegno dei serbobosniaci). Nessuno tiene conto del fattore umano: della capacità di resistenza delle vittime; della solidarietà tra civili che più che materiale si danno una mano morale; delle truppe musulmane improvvisate e male armate che proteggono la città.
4 aprile 1992. L'Armata popolare con truppe speciali e carri armati tenta di occupare il palazzo presidenziale di Sarajevo. Da gennaio Izetbegović non passa le consegne della presidenza a rotazione della Bosnia a Karadžič. Ma l'armata viene fermata sulla Skenderija dalle “vespe” musulmane, un nugolo di giovani con venti fucili. Il giorno dopo, duemila persone sfilano per la città chiedendo pace e un governo di unità nazionale. In risposta, i serbi sparano. Colpi di mortaio arrivano anche dalle colline dei dintorni. Il 6 aprile, alla folla manifestante si aggiungono i minatori giunti dalla provincia con 500 pullman. I serbi sparano ancora. Un cecchino colpisce la studentessa Suada Dilberovic, che diventa icona della protesta. I manifestanti diventano 50mila. E quando gli uomini di Karazdic uccidono quattro persone, una sparatoria generale tra serbi e berretti verdi (la Lega patriottica musulmana) si estende a tutta la città. Comincia l'assedio.
Fino a quel momento a Sarajevo hanno convissuto tre nazionalità: il 49 per cento bosniaco (musulmano); il 30 serbo di Bosnia (cristiano ortodosso); il 7 croato di Bosnia (cattolico). L'11 per cento rifiuta la definizione etnica dichiarandosi jugoslavo. Un terzo dei matrimoni è celebrato tra coppie miste.
La città si estende su un pianoro circondato su tre lati da colline e montagne. Una favorevole realtà geografica che diventa una trappola. L'Armata nazionale si posiziona sulle alture e stringe Sarajevo in una morsa, con la motivazione di difendere i serbi locali. Occupa anche il quartiere di Ilidža, con un'importante centrale idrica. Sui tetti dei palazzi del «Viale dei cecchini» si posizionano serbi campioni sportivi di tiro. Sparano sui civili, senza logica: l'intento è quello di portare la popolazione allo sfinimento. I bombardamenti dalle montagne sono sistematici, le granate piovono a centinaia, sulla città vecchia, sulle linee telefoniche, sulle infrastrutture e gli ospedali, sulle centrali del latte e del pane, sugli edifici simbolo della religione e della cultura (il 25 agosto 1992 tocca alla biblioteca nazionale, culla della storia bosniaca, il cui restauro si sta concludendo proprio in questi giorni). Nel febbraio del '94 è la volta del mercato di Markale: è la prima di due attacchi che uccidono in tutto quasi cento persone. Fare spesa tra i colpi conficcati nell'asfalto diventa normalità. Banditi saccheggiano negozi e abitazioni; la popolazione organizza ronde e si divide il cibo. L'acqua, bloccata dai serbi, è distribuita a scaglioni e per quartiere. Così si purifica quella della Milijacka (il fiume della città) o si percorrono chilometri a piedi, con taniche e secchi, sotto il fuoco dei cecchini. I 280mila abitanti hanno sete, non possono lavarsi né fare il bucato, non hanno riscaldamento, né vetri alle finestre, né luce e candele. La vita nei caffè è un lontano ricordo. Al lavoro si va a piedi, attraversando interi isolati sperando di non essere nel mirino dello «sniper» di turno (cecchino). La scritta di avvertimento compare sui muri dei palazzi mentre per le strade vengono stese lenzuola e coperte per ostacolare la visuale.
L'assedio copre tre lati. Sul quarto c'è l'aeroporto, zona neutra oltre la quale il territorio è difeso dai bosniaci. È qui, a Butmir, che si scava per realizzare un tunnel di 800 metri che passa sotto la pista raggiungendo Sarajevo. Per quel cunicolo fangoso e dotato di rotaia, passano civili in fuga, ma anche viveri, feriti su barelle, animali. E armi.
Ma solo un sostenuto (e tardivo) bombardamento degli armamenti serbi da parte della Nato pone fine all'assedio nell'autunno del 1995. I segni oggi rimangono nelle facciate dei palazzi crivellate di colpi e nelle rose di Sarajevo sbiadite dal tempo: nei buchi lasciati dalle bombe sulla città vecchia fu colata della ceramica rossa a ricordo. Ma si è anche ricostruito molto e le immagini del “prima e dopo” delle torri gemelle in vetro, dell'Holiday Inn e di altri grattacieli simbolo, sono oggi un gadget del museo della guerra, fiero moto d'orgoglio di una lunga ripresa.

4 commenti:

  1. Qualche bel libro recente che consiglieresti nel centenario della WW1 per rileggere tutta la storia della regione da allora fino ad oggi?

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    1. Recenti non saprei, ma di recente ho ripreso in mano Pirijevec...

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    2. Un volume "di peso" in tutti i sensi, però sì, potrebbe essere un'idea. Mi sa che Pirjevec diventerà come Guerra e Pace, quei libri che ogni tot vale la pena riprendere in mano dall'inizio alla fine, per scoprirci sempre qualcosa di nuovo.

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  2. Sempre sconvolgente ripercorrere questa triste storia, ma e'importante per non dimenticare l'orrore che non svanira' mai di quella e di tutte le guerre.

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