26 settembre 2013

Emir, dalla parte della Bosnia

Emir è nato a Mostar (Bosnia), 38 anni fa, da genitori croati e ha vissuto a Spalato (Croazia). Aveva un nonno bosniaco e in Bosnia ha sposato una serba, dalla quale ha avuto due figli che vivono con mamma e papà in America. Il più piccolo ha cittadinanza statunitense.

Emir è un Bignami dei Balcani (*), ma quando gli dico che è un esempio di pacificazione si fa serio e mi dice che non è così semplice. Quando le persone, chiacchierando, gli chiedono quale sia la sua nazionalità, risponde all'occorrenza.
Emir, però, ha la Bosnia nel cuore. La sua passione nel difendere la storia di questa terra lacerata è trascinante. Non dimentica mai di apostrofare lo sterminio degli 8372 bosniaci musulmani a Srebrenica come «genocidio» e alla sera ascoltarlo raccontare cosa accadde qui quando era all'incirca un ventenne è coinvolgente. 


«Srebrenica – dice – è una storia che si deve raccontare fuori di qui, in Europa, in tutto il mondo». Lo dicono ogni anno anche le «Madri di Srebrenica», memorie viventi di violenze inenarrabili scatenatesi quando all'improvviso scoprirono di «avere il nemico in casa» o di esserlo, il nemico.
L'importanza del ricordo, qui, soprattutto in questi giorni di commemorazione (11 luglio), è un tema caro: «L'Europa conosce il denaro, l'euro, l'oro, l'economia, la politica, ma non conosce la disperazione di queste madri – continua Emir –. Per questo è importante che i giovani ne raccontino la storia. È una questione di verità e di giustizia. Dicono che non fu genocidio. Ma un massacro di 8000 persone non si improvvisa».

Emir Murkic Kačapor fa parte del Forum internazionale della solidarietà, l'Emmaus bosniaco, ed è referente dell'Alleanza Franco Bettoli; è tornato da Washington in Bosnia per accompagnarci in questi giorni (9-12 luglio 2013). Seguo una delegazione di Emmaus Villafranca, in Bosnia per visitare il caseificio di Duje, alla realizzazione del quale ha partecipato. Abbiamo dormito a Leptir, un centro che accoglie ragazze minorenni, bosniache, ungheresi, russe... tolte dalla strada e indirizzate verso una nuova vita. Dopo la visita del villaggio di Duje, per anziani non autosufficienti, persone con problemi psichici, orfani e disabili, siamo giunti al campo per giovani di Potočari: una gruppetto di case a pochi metri dal memorial center, dove Emmaus ospita ragazzi di tutta Europa proponendo loro campi di lavoro di venti giorni.
Qui passiamo l'ultima serata con Emir, impegnato in un progetto per far studiare i bambini locali, che abitano a otto chilometri dalla scuola, in aperta campagna, e ai quali nessuno sembra interessarsi. Emmaus vuole dare loro una formazione e aiutare l'evolversi di uno spirito critico, sollevando così le coscienze e creando generazioni future che non ripeteranno gli errori di quelle passate. 

Ascoltare Emir è come fare un tuffo nell'ex Jugoslavia di 18 anni fa e lì, a Potočari, a poche centinaia di metri da migliaia di cippi di marmo bianco, l'atmosfera si fa ancora più pesante. Ripenso alle parole di Leyla («Sentirete i morti a Potočari») e a quanto sono vere.
La fabbrica oggi è un memoriale
Emir fa un passo indietro di 18 anni. La fabbrica rugginosa qui vicino, a pochi passi dal villaggetto di Emmaus, era la base Onu a difesa della zona protetta di Srebrenica nel 1995. Lì, migliaia di bosniaci musulmani si rifugiarono cercando protezione. Da lì, poche centinaia di caschi blu olandesi, forse per timore delle più numerose truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić (arrestato per genocidio e stupri etnici soltanto nel 2011), forse per un disguido nell'avvicendarsi dei comandi, forse per ingenuità, li fecero uscire a gruppetti, tra il 9 e l'11 luglio del 1995, consegnandoli agli uomini di Mladić, che li ammazzarono.

Sono oltre 7000 i nomi scolpiti sulle lastre di marmo del memoriale di Potočari. I corpi restanti sono di difficile identificazione ma le «Madri di Srebrenica» non demordono e non si piegano all'idea di riunire le ossa in un'unica tomba, all'interno del memoriale. Vogliono tutti gli 8372 figli, mariti e familiari qui, dove il dolore non si placa, dove si rinnova ogni anno l'11 luglio, ciascuno con la loro lapide e il loro nome. Perché il tempo non scalfisce il tormento, né il desiderio di dare giustizia ai propri morti e coltivare la verità su quanto è successo.

Il quaderno di un ragazzino ucciso durante il genocidio
«Dicono che non fu genocidio – riprende Emir – ma smembrarono i corpi. Hanno trovato fosse comuni con le teste, altre fosse con braccia o gambe. Dicono che non fu genocidio perché morirono solo uomini e che dagli 11 anni d'età in giù i bambini furono risparmiati e rimandati con le madri; ma sono stati trovati anche bimbi e donne nelle fosse comuni. Sono scomparse intere famiglie. A Srebrenica mancano alcune generazioni e gli alunni, oggi, frequentano scuole nelle quali furono commessi delitti efferati».

Le truppe di Mladić rastrellarono le zone, radunando i bosniaci in istituti scolastici e fabbriche, dove li torturarono e uccisero, seppellendoli in buche poco distanti. Emir mi spiega che il riconoscimento dei corpi riesumati dalle fosse comuni (effettuato a Tuzla da una commissione internazionale) si basa sulle prove del Dna. Basta il 67 per cento di compatibilità per attribuire un nome a un corpo. Ma alcune famiglie sono scomparse completamente e non ci sono parenti per risalire alle salme. E poi c'è la confusione: una donna racconta di aver perso due figli; il Dna li ha trovati, ma non sa con precisione se la testa corrisponda a un corpo o all'altro.
Eppure, la lotta per il riconoscimento va avanti e restituisce ogni anno alcune centinaia di nomi (ora ne mancano all'incirca mille), con lentezza e su una strada in salita ostacolata da chi ancora non riconosce il genocidio.

«I serbi non lo ammettono. Parlano di invenzione e la chiesa ortodossa l'11 luglio, in concomitanza con la cerimonia musulmana, organizza il Festival della luce e commemora alcuni caduti serbi uccisi dai bosniaci nel '92, i cui corpi sono stati recuperati l'anno scorso. A Srebrenica si respira la divisione e si mette in dubbio tutto. Potočari è un puntino bosniaco nella Repubblica Srpska. Ci sono madri e mogli che riconoscono per strada i poliziotti che portarono via figli e mariti. I giovani serbi hanno oggi gli stessi timori dei coetanei bosniaci, ma i ragazzi non si parlano tra loro. Diciotto anni fa ci fu collaborazione anche dei locali, che mettevano a disposizione buche o terreni per le fosse comuni. Le vedove e le madri ogni anno compiono un giro dei luoghi di reclusione, fabbriche e scuole, ma vengono insultate. È una guerra che combattono da sole».
Cecile

Gli racconto che nel pomeriggio ho incontrato alla fabbrica Cecile, una donna olandese che ogni anno accompagna i veterani connazionali qui. Vogliono venirci, per una sorta di pellegrinaggio e per ricordare. La voce e il viso serio di Cecile, dalla pelle candida incorniciato da un velo a nascondere i capelli rossi, raccontano il grande peso nel cuore di quei militari. Anche per loro, oggi, non dev'essere facile ricordare. Lo faccio presente a Emir chiedendo come andarono in realtà le cose. Mi spiega che le ipotesi sono diverse: forse Mladić aveva dato loro garanzie politiche, assicurando che non avrebbe fatto nulla ai bosniaci; forse li minacciò e gli olandesi – pochi e molto giovani – cedettero il passo; forse ci fu un disguido nella ricezione dei comandi. «C'era molta confusione. L'armata serba era già entrata nella zona protetta. Srebrenica era caduta. Forse ci fu una disfunzione tra i diversi anelli di chi impartiva gli ordini e poi fu troppo tardi: i soldati erano già entrati. In seguito, i bosniaci hanno chiesto che gli olandesi fossero processati, ma la richiesta è stata respinta, con la motivazione che erano lì in vece dell'Onu e, pertanto, non possono essere sottoposti a processo». 

(*) Le divisioni geopolitiche e religiose nei Balcani sono complesse. A grandi linee i croati sono cattolici, i serbi cristiano-ortodossi, i bosniaci musulmani. La Bosnia Erzegovina, geopoliticamente, è divisa in tre parti: la repubblica Srpska è quella serba ortodossa e corre lungo tutto il confine con la Croazia e la Serbia; la federazione di Bosnia ed Erzegovina è la parte dei bosniaci musulmani e ingloba Sarajevo; poi c'è il territorio di  Brčko, un porto fluviale a popolazione mista, sul confine Nord-Est con la Croazia: si autogoverna dal 1999.

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