Il pulmino rallenta davanti alla
tettoia blu. Una giovane donna in divisa azzurra mi dice di non
fotografare. Deve aver visto che sono aggrappata alla Nikon come
fosse un orsacchiotto di peluche. Ma la mia è solo emozione.
Slavonski Brod è il mio passaggio nel cuore dei Balcani e il mio di
cuore sta per avere un sussulto. Attendo questo momento non so da
quando e non so neppure perché. È un'attesa innata. Dovevo venirci
qui. Dovevo vedere la Bosnia. E quando il pulmino solca il ponte
sulla Sava (il fiume che scorre
sul confine con la Croazia) che ci apre il varco su questa
terra, mi sento abbracciare. Scintilla l'acqua del fiume
all'imbrunire. Ho passato il posto di blocco, posso fotografare ma
ancora mi sento intimorita
e scatto qualche frammento al volo, di corsa, quasi rubandolo.
Non so nulla di questi posti, non molto perlomeno. Negli anni Novanta ero ragazzina abbastanza per capire che avrei potuto informarmi di più. Ma ricordo solo qualche diretta di Toni Capuozzo da Sarajevo, nei giorni dell'attentato al mercato e durante l'assedio della città. Il resto è solo studio all'università.
Mi schiaffeggerei per non aver letto e
ascoltato di più. Ma in parte sono contenta così. Sono un vaso
vuoto da riempire di immagini e impressioni.
Ecco le
bandiere. Il giallo è separato dal blu da una diagonale di stelline.
Ci sono. Il cuore vibra di nuovo. Poi la delusione. «Welcome to
Republic Srpska». Ma come? È il primo assaggio degli accordi di
Dayton del 1995. I miei compagni di viaggio accennano all'enclave
serba, indicando i cartelli scritti in cirillico, ma Emir mi spiegherà a cena di non chiamarla
«enclave». Non è, infatti, un territorio dipendente da un altro
Stato. Davanti a un pezzo di Pitta alle zucchine e un piatto di
carne, mi racconterà della divisione della Bosnia in tre parti. La
repubblica Srpska, quella serba ortodossa, corre lungo tutto il
confine con la Croazia e la Serbia; la Bosnia ed Erzegovina, detta
federazione, è la parte dei mussulmani bosniaci e ingloba Sarajevo;
poi c'è il ciondolino attorno a Brčko,
una sorta di San Marino, un porto fluviale a
popolazione mista, sul confine Nord-Est con la Croazia: si
autogoverna dal 1999. Lì non se ne venne a capo e si decise per il
distretto.
Srpska e
federazione hanno più o meno le stesse dimensioni, anche come numero
di abitanti, e sono dotate di autonomia, seppur limitata. Ogni parte
ha un proprio rappresentante e c'è una presidenza per tutte e tre le
realtà, che cambia a rotazione ogni tre mesi. Questo certo non
facilita il buon governo in una terra nella quale sembra assopito lo
spirito di iniziativa.
Non so staccare gli occhi dal
finestrino. Vedo un mondo che sembra fermo da tempo. Una villetta
bianca ha una scarica di fori sulla facciata. Seguono case senza
tetto, bruciate, bombardate, distrutte e abbandonate. La natura le ha
inglobate: come in tanti altri casi è lei a cancellare i segni delle
guerre. Mi colpisce una casina bianca, isolata, a due piani. Ha delle
croci nere sopra. È la firma dei cetnici. Raccapezzarsi in questo
mosaico di vicende non è facile. È come innescare una nebulosa di
pensieri assopiti, che ora si rincorrono in cerchio e non trovano il
bandolo.
Ci tuffiamo in un paese di montagne e
valli verdi. Le case distrutte diminuiscono. Siamo diretti a Doboj
Istok. È la parte musulmana di Doboj, cittadina della repubblica,
che raggiungiamo per poi svoltare a sinistra, valicando un ponte. In
un dirupo a picco sulla gola scavata dal fiume c'è un'immensa
discarica. Metri e metri di rifiuti sulla scogliera. Uno dei tanti
contrasti bosniaci in quella che sembra una valle incantata di
boschi, fiumi, rapide e prati.
Tra covoni di paglia e tetti rossi, in
un'atmosfera di un tempo che non c'è più, ti aspetteresti di veder
spiccare campanili con la punta a cipolla e qualche eco
baroccheggiante austriaco. Invece svettano bianchi e luccicanti i
minareti. Fa un effetto strano, di pieno contrasto geografico.
Montagna verde e moschea, per me, con la mia visione Europa-centrica
che sta per cedere a nuovi confini, sembra un ossimoro. Ma è la
peculiarità della Bosnia. Il suo essere un coacervo di tante cose.
Silenzioso e intrigante. Un ossimoro dolorante e lacerato.
Scendo davanti a una bella casina. Era
un vecchio ristorante, con la scritta Leptir. Dormiremo qui, nella
sede del Forum internazionale della solidarietà, l'Emmaus bosniaco.
Lejla, una giovane ragazza dalla pelle vitrea e gli occhi azzurri ci
attende, col suo italiano quasi perfetto. Metto i piedi a terra. Su
suolo bosniaco. E sono frastornata. Mi sembra di essere stata in
apnea dal confine a qui. Casa è lontana, ma sulle asfissianti ultime
settimane trascorse a Villafranca, questo bizzarro paese, che mi
affascinerà più di quanto immagino, ha già passato un colpo di
spugna.
Rapita.
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