29 luglio 2013

Slavonski Brod, ingresso nei Balcani


Il pulmino rallenta davanti alla tettoia blu. Una giovane donna in divisa azzurra mi dice di non fotografare. Deve aver visto che sono aggrappata alla Nikon come fosse un orsacchiotto di peluche. Ma la mia è solo emozione. Slavonski Brod è il mio passaggio nel cuore dei Balcani e il mio di cuore sta per avere un sussulto. Attendo questo momento non so da quando e non so neppure perché. È un'attesa innata. Dovevo venirci qui. Dovevo vedere la Bosnia. E quando il pulmino solca il ponte sulla Sava (il fiume che scorre sul confine con la Croazia) che ci apre il varco su questa terra, mi sento abbracciare. Scintilla l'acqua del fiume all'imbrunire. Ho passato il posto di blocco, posso fotografare ma ancora mi sento intimorita e scatto qualche frammento al volo, di corsa, quasi rubandolo.


Non so nulla di questi posti, non molto perlomeno. Negli anni Novanta ero ragazzina abbastanza per capire che avrei potuto informarmi di più. Ma ricordo solo qualche diretta di Toni Capuozzo da Sarajevo, nei giorni dell'attentato al mercato e durante l'assedio della città. Il resto è solo studio all'università.
Mi schiaffeggerei per non aver letto e ascoltato di più. Ma in parte sono contenta così. Sono un vaso vuoto da riempire di immagini e impressioni.

Ecco le bandiere. Il giallo è separato dal blu da una diagonale di stelline. Ci sono. Il cuore vibra di nuovo. Poi la delusione. «Welcome to Republic Srpska». Ma come? È il primo assaggio degli accordi di Dayton del 1995. I miei compagni di viaggio accennano all'enclave serba, indicando i cartelli scritti in cirillico, ma Emir mi spiegherà a cena di non chiamarla «enclave». Non è, infatti, un territorio dipendente da un altro Stato. Davanti a un pezzo di Pitta alle zucchine e un piatto di carne, mi racconterà della divisione della Bosnia in tre parti. La repubblica Srpska, quella serba ortodossa, corre lungo tutto il confine con la Croazia e la Serbia; la Bosnia ed Erzegovina, detta federazione, è la parte dei mussulmani bosniaci e ingloba Sarajevo; poi c'è il ciondolino attorno a Brčko, una sorta di San Marino, un porto fluviale a popolazione mista, sul confine Nord-Est con la Croazia: si autogoverna dal 1999. Lì non se ne venne a capo e si decise per il distretto.
Srpska e federazione hanno più o meno le stesse dimensioni, anche come numero di abitanti, e sono dotate di autonomia, seppur limitata. Ogni parte ha un proprio rappresentante e c'è una presidenza per tutte e tre le realtà, che cambia a rotazione ogni tre mesi. Questo certo non facilita il buon governo in una terra nella quale sembra assopito lo spirito di iniziativa.

Non so staccare gli occhi dal finestrino. Vedo un mondo che sembra fermo da tempo. Una villetta bianca ha una scarica di fori sulla facciata. Seguono case senza tetto, bruciate, bombardate, distrutte e abbandonate. La natura le ha inglobate: come in tanti altri casi è lei a cancellare i segni delle guerre. Mi colpisce una casina bianca, isolata, a due piani. Ha delle croci nere sopra. È la firma dei cetnici. Raccapezzarsi in questo mosaico di vicende non è facile. È come innescare una nebulosa di pensieri assopiti, che ora si rincorrono in cerchio e non trovano il bandolo.
Ci tuffiamo in un paese di montagne e valli verdi. Le case distrutte diminuiscono. Siamo diretti a Doboj Istok. È la parte musulmana di Doboj, cittadina della repubblica, che raggiungiamo per poi svoltare a sinistra, valicando un ponte. In un dirupo a picco sulla gola scavata dal fiume c'è un'immensa discarica. Metri e metri di rifiuti sulla scogliera. Uno dei tanti contrasti bosniaci in quella che sembra una valle incantata di boschi, fiumi, rapide e prati.


Tra covoni di paglia e tetti rossi, in un'atmosfera di un tempo che non c'è più, ti aspetteresti di veder spiccare campanili con la punta a cipolla e qualche eco baroccheggiante austriaco. Invece svettano bianchi e luccicanti i minareti. Fa un effetto strano, di pieno contrasto geografico. Montagna verde e moschea, per me, con la mia visione Europa-centrica che sta per cedere a nuovi confini, sembra un ossimoro. Ma è la peculiarità della Bosnia. Il suo essere un coacervo di tante cose. Silenzioso e intrigante. Un ossimoro dolorante e lacerato.
Scendo davanti a una bella casina. Era un vecchio ristorante, con la scritta Leptir. Dormiremo qui, nella sede del Forum internazionale della solidarietà, l'Emmaus bosniaco. Lejla, una giovane ragazza dalla pelle vitrea e gli occhi azzurri ci attende, col suo italiano quasi perfetto. Metto i piedi a terra. Su suolo bosniaco. E sono frastornata. Mi sembra di essere stata in apnea dal confine a qui. Casa è lontana, ma sulle asfissianti ultime settimane trascorse a Villafranca, questo bizzarro paese, che mi affascinerà più di quanto immagino, ha già passato un colpo di spugna.  

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