10 febbraio 2017

Storie istriane #AlbertoWoloschin

Settant'anni fa migliaia di italiani di Istria, Dalmazia e Venezia Giulia siglarono una solenne dichiarazione di appartenenza con la madre patria, lasciando case, genitori anziani, lavoro, una vita benestante e persino i defunti al cimitero, per un salto nel buio che consentisse però loro di continuare a essere italiani. Era il 10 febbraio 1947 e con il Trattato di Parigi si ritiravano i confini dell'Italia alla geografia antecedente al Ventennio, lasciando alla Jugoslavia di Tito l'Istria, la Venezia Giulia e la costa dalmata dell'Adriatico dove nei paesi campeggiavano i leoni di San Marco e la lingua più diffusa era il veneto. (Da L'Arena, 7 febbraio, di Maria Vittoria Adami).

Ne seguì un esodo oggi commemorato il 10 febbraio con il Giorno del ricordo.
La storia dell'esodo inizia prima del trattato di Parigi. Anni di persecuzioni, efferatezze e pulizie etniche, rastrellamenti, requisizioni e fucilazioni a opera dei titini contro gli italiani, con migliaia di civili, militari e religiosi scomparsi nelle foibe, spingono verso l'Italia oltre 300mila istriani, giuliani e dalmati tra il 1943 e il 1954, su carri, treni, navi e camion. In mano solo i documenti, ma tanta determinazione a ricominciare. Non sarà facile. L'Italia non accoglie i profughi con benevolenza: rappresentano la sconfitta e sono un altro problema da affrontare tra i tanti lasciati dalla guerra. La maggior parte di loro è sistemata in campi profughi (a Verona sarà allestito nell'attuale chiostro di San Francesco all'università), edifici dismessi e caserme abbandonate.

Verona si mostrerà più generosa di altre città. Qui, tra 800 famiglie, arriverà nel 1947 Alberto Woloschin, 47 anni. A Fiume ha un'officina di corriere e una clinica sanitaria. Gli viene requisito tutto. La stampa lo definisce un «sabotatore del popolo»: due corriere in riparazione sono per le autorità titine un «danneggiamento della comunità». Viene incarcerato per cinque mesi. Uscito, lascia Fiume, con la moglie Slavka, di origini croate, e la figlioletta tredicenne Annamaria, oggi madre di Francesca Briani, presidente dell'Anvgd scaligera. Parte diretto a Verona. Ci sono molti ingegneri lì, di origine fiumana. Forse qualcuno lo può aiutare. A bordo di un camion arriva in via Marsala, in Valdonega. La strada è sterrata. In una palazzina la famiglia Righetti si prende cura della piccola Annamaria, mentre i genitori si sistemano. Alberto si mette all'opera. Ottiene un prestito dalla cassa di Risparmio, apre un'impresa edile e la chiama Resurgo. Nel frattempo, riacquista i contatti con alcune delle cento famiglie fiumane a Verona, che ogni anno si ritrovano, il 15 giugno, per il loro patrono San Vito, davanti alla Prefettura. Nel 1958 con Albina Repic Cussar, Mario Rolando e Nerea Derencin – che ha una licenza per il cinematografo - fonda la società Carnaro, che costruirà e gestirà il cinema Fiume vicino a San Zeno. Sarà un introito per mantenere le famiglie, ma anche un punto di riferimento, come il Superbar di via Alberto Mario o la trattoria del Cesiolo, dove ricordare quella città lasciata in fretta e furia, col dolore di una storia sottratta, ma l'orgoglio di una vita riacciuffata senza recriminazioni, sempre guardando avanti.

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