Settant'anni fa migliaia di italiani di
Istria, Dalmazia e Venezia Giulia siglarono una solenne dichiarazione
di appartenenza con la madre patria, lasciando case, genitori
anziani, lavoro, una vita benestante e persino i defunti al cimitero,
per un salto nel buio che consentisse però loro di continuare a
essere italiani. Era il 10 febbraio 1947 e con il Trattato di Parigi
si ritiravano i confini dell'Italia alla geografia antecedente al
Ventennio, lasciando alla Jugoslavia di Tito l'Istria, la Venezia
Giulia e la costa dalmata dell'Adriatico dove nei paesi campeggiavano
i leoni di San Marco e la lingua più diffusa era il veneto. (Da L'Arena, 7 febbraio, di Maria Vittoria Adami).
Ne seguì un esodo oggi commemorato il
10 febbraio con il Giorno del ricordo.
La storia dell'esodo inizia prima del
trattato di Parigi. Anni di persecuzioni, efferatezze e pulizie
etniche, rastrellamenti, requisizioni e fucilazioni a opera dei
titini contro gli italiani, con migliaia di civili, militari e
religiosi scomparsi nelle foibe, spingono verso l'Italia oltre 300mila
istriani, giuliani e dalmati tra il 1943 e il 1954, su carri, treni,
navi e camion. In mano solo i documenti, ma tanta determinazione a
ricominciare. Non sarà facile. L'Italia non accoglie i profughi con
benevolenza: rappresentano la sconfitta e sono un altro problema da
affrontare tra i tanti lasciati dalla guerra. La maggior parte di
loro è sistemata in campi profughi (a Verona sarà allestito
nell'attuale chiostro di San Francesco all'università), edifici
dismessi e caserme abbandonate.
Verona si mostrerà più generosa di
altre città. Qui, tra 800 famiglie, arriverà nel 1947 Alberto
Woloschin, 47 anni. A Fiume ha un'officina di corriere e una clinica
sanitaria. Gli viene requisito tutto. La stampa lo definisce un
«sabotatore del popolo»: due corriere in riparazione sono per le
autorità titine un «danneggiamento della comunità». Viene
incarcerato per cinque mesi. Uscito, lascia Fiume, con la moglie
Slavka, di origini croate, e la figlioletta tredicenne Annamaria,
oggi madre di Francesca Briani, presidente dell'Anvgd scaligera.
Parte diretto a Verona. Ci sono molti ingegneri lì, di origine
fiumana. Forse qualcuno lo può aiutare. A bordo di un camion arriva
in via Marsala, in Valdonega. La strada è sterrata. In una palazzina
la famiglia Righetti si prende cura della piccola Annamaria, mentre i
genitori si sistemano. Alberto si mette all'opera. Ottiene un
prestito dalla cassa di Risparmio, apre un'impresa edile e la chiama
Resurgo. Nel frattempo, riacquista i contatti con alcune delle cento
famiglie fiumane a Verona, che ogni anno si ritrovano, il 15 giugno,
per il loro patrono San Vito, davanti alla Prefettura. Nel 1958 con
Albina Repic Cussar, Mario Rolando e Nerea Derencin – che ha una
licenza per il cinematografo - fonda la società Carnaro, che
costruirà e gestirà il cinema Fiume vicino a San Zeno. Sarà un
introito per mantenere le famiglie, ma anche un punto di riferimento,
come il Superbar di via Alberto Mario o la trattoria del Cesiolo,
dove ricordare quella città lasciata in fretta e furia, col dolore
di una storia sottratta, ma l'orgoglio di una vita riacciuffata senza
recriminazioni, sempre guardando avanti.
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