9 febbraio 2016

Storie istriane #MarinaSmaila

Le foto del matrimonio dei genitori e del papà da giovane, uno schizzo della torre della città. C'è un angolo di ricordi fiumani nel salotto di casa di Marina Smaila, veronese d'adozione e nata a Fiume nel 1939. La sua identità e la sua storia sono tutte condensate lì e nella fierezza, mai esasperata, di far parte di quegli italiani di Istria, Venezia Giulia e Dalmazia, che tra il '43 e il '54 chiusero per sempre la porta dicasa compiendo un salto nel buio pur di restare italiani.

La storia della signora Smaila è passata anche per il campo profughi di Verona che in pochi conoscono: era nell'attuale chiostro dell'università in via San Francesco, oggi rimesso a nuovo e nel quale non resta segno di quella storia se non nella lapide posta dal Comune nel 2011. «Oggi è talmente diverso – racconta la signora Smaila –. Per noi era “zona Campo Fiore”. Quando arrivammo era uno sterrato incolto, con qualche albero e un pozzo al centro. Vi si affacciavano vecchie costruzioni: ex alloggi militari composti da cucina, camera e uno stanzino. I servizi erano fuori e in comune: questa fu un'esperienza terribile. L'acqua si prendeva in cortile. In quella casa eravamo in sette. Una situazione della quale quasi ci si vergognava. Alla fine eravamo tutte persone che lasciavano una vita agiata».


Ma l'approdo in Campo Fiore fu solo l'ultima tappa per la famiglia Smaila. 
La piccola Marina ha nove anni e mezzo quando, con le trecce e il cappottino, lascia la sua casa col giardino sul mare a Fiume e l'officina da fabbro del padre, fondata dal nonno nel 1906 (sotto l'Austria Ungheria che riconosceva la nazionalità italiana). Non vedrà più i giochi e la cameretta: «Partimmo con l'essenziale. I mobili li avevamo trasportati a Venezia dove c'era un deposito per noi profughi».
Il fratellino Renzo nel cortile del campo profughi di Verona
È il 1949. In molti se ne sono già andati dalle coste adriatiche sulle quali campeggia la bandiera jugoslava. «Mamma e papà hanno atteso, nella speranza che la zona fosse riassegnata all'Italia e poi i nonni non volevano andarsene. Ma eravamo discriminati in tutto. Non c'era Natale né Pasqua per noi cattolici. Un cugino di papà era stato infoibato perché a 18 anni aveva fatto la leva nei carabinieri: era una aggravante. La domenica dovevamo partecipare alla sfilata dei pionieri. Ogni lunedì la maestra era tenuta a chiedere se eravamo andati. Ma io andavo a messa. Un giorno glielo dissi e non dimenticherò mai il terrore nel suo sguardo. Mi prese da parte e mi disse di non dirlo mai più, perché mettevo in pericolo il papà. Mi spaventò molto».
Nel 1947, col trattato di Parigi, cadono le speranze della famiglia Smaila. E così partono papà Giorgio, 40 anni, e mamma Irene, 37 che aspetta un bambino, e i figli Giorgio, Franco, Marina e la più piccola Luciana. «Ne andava del nostro futuro e papà decise di venir via: i miei figli sono italiani e moriranno italiani, ripeteva. O venivamo via o perdevamo la cittadinanza italiana, la nostra cultura e la religione». Da un giorno all'altro, si parte. Non si porta via neppure un attrezzo dall'officina che è stata requisita. I nonni restano. Gli Smaila danno l'ultimo sguardo indietro, poi la loro strada andrà sempre avanti.
Arrivo a Trieste con la famiglia e due zii (Marina è la seconda
in basso a sinistra)
Partono per Trieste in treno, con una coppia di zii. Come tanti profughi non sanno dove finiranno. Da Trieste si va a Udine in un centro con enormi stanzoni: le pareti divisorie sono delle coperte a cavallo di fili per la biancheria. In servizi sono in comune. Poi si arriva al campo profughi di Mantova. «Era un'ex caserma con 800 persone alloggiate. Si dormiva nelle camerate dei militari dove avevano alzato delle tramezze che non arrivavano al soffitto per far girare aria e luce dall'alto. Avevamo due “box”, così li chiamavano, e abbiamo imparato la prima parola inglese: uno per papà coi figli maschi e uno per la mamma con noi femmine. I bagni erano le latrine militari e fuori c'era una fila di lavandini per tutti». Qui nasce Renzo, ultimo degli Smaila. Le bambine vanno a scuola nel campo dove vengono a insegnare delle maestre mantovane. Sulle pagelle, alla fine dell'anno, campeggia la scritta in matita “profuga giuliana”. «Devo tutto a una maestra del campo che mi preparò per gli esami di quinta elementare: non sapevo nulla della storia e della geografia di qui».
La famiglia trascorre due anni nel campo. Ma papà Giorgio si dà subito da fare per cercare lavoro e portare via tutti. «Mantova era ostile. Ero emarginata dalle ragazzine; mi dicevano che non ero italiana. Allora papà mi disse: “Di' loro che sei doppiamente italiana: perché sei nata italiana e perché hai lasciato tutto per continuare a esserlo”. Ci spronava a non commiserarci». E questa consapevolezza traspare nel racconto di Marina, mai carico di livore per le ingiustizie subite. «Mai piagnucolar, diceva papà. In questo gli devo molto: i nostri genitori ci sostennero, abbiamo sviluppato un'estrema dignità per reagire alla situazione. Ero diversa, sì, ma speciale».
La risalita della famiglia parte da Verona, città vicina a Mantova ma che offre maggiori possibilità di trovare un lavoro: ci sono molte imprese edili di ingegneri fiumani. Gli Smaila si spostano qui. Non avendo però possibilità di affittare una casa, ricevono quella del campo profughi. «Eravamo trenta famiglie circa, ma la situazione era decisamente migliore. Avevamo due stanze, ma con porte e finestre. E anche se eravamo tutti appiccicati, l'alloggio era nostro. Tra le famiglie si fece amicizia: le donne si trovavano in cortile per lavare la biancheria d'estate e facevano i turni di pulizia dei bagni. C'era fratellanza per forza di cose. Per proseguire gli studi, mio fratello maggiore andò in collegio a Grado, l'altro lavorò con papà. Noi andavamo a scuola e la mamma badava a tutti noi. Coi suoi vecchi vestiti ci confezionava abiti. E per la porta d'ingresso cucì anche le tende. Piantò qualche fiore in cortile. Non abbiamo mai dato l'impressione di essere poveri e Verona si mostrò più aperta di Mantova, forse era indifferenza che però faceva meno male del disprezzo».
Nel '55, la famiglia Smaila ottiene una casa comunale in affitto a San Bernardino: «Finalmente un bagno nostro». È la fine dell'esodo: «Ci siamo riconquistati una vita decente con sacrifici estremi di tutti noi: il primo cappotto nuovo l'ho avuto a vent'anni».
Delle famiglie di Campo Fiore ognuna è andata per la sua strada («I miei vollero dare un taglio a quel passato, non ne parlarono più») mentre la signora Marina è tornata nella sua Fiume, coi figli, in villeggiatura più volte. La villetta e l'officina sono state abbattute, ma non i ricordi di quelle radici che la signora – mai senza garbo – segnala laddove vengono sacrificate dalla tecnologia e dall'informatica: «Una volta in Pronto soccorso su un certificato risultò che ero apolide, un'altra volta moldava; sulla carta d'identità volevano scrivere Jugoslavia. Giro con il riferimento della legge del 1989 che dice che sono italiana e che sui documenti, nel nostro caso, basta scrivere il nome del paese (Zara, Fiume...) senza accompagnarlo da altre diciture. Sono di Fiume, punto. E sono italiana».

2 commenti:

  1. Credo che ci siano tanti frammenti di storia che val la pena di non dimenticare.I ricordi, per quanto personali, alla fine appartengono all'umanità, e per questo sono ancora più importanti.

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