Le foto del matrimonio dei genitori e
del papà da giovane, uno schizzo della torre della città. C'è un
angolo di ricordi fiumani nel salotto di casa di Marina Smaila,
veronese d'adozione e nata a Fiume nel 1939. La sua identità e la
sua storia sono tutte condensate lì e nella fierezza, mai
esasperata, di far parte di quegli italiani di Istria, Venezia Giulia
e Dalmazia, che tra il '43 e il '54 chiusero per sempre la porta dicasa compiendo un salto nel buio pur di restare italiani.
La storia della signora Smaila è passata anche per il campo profughi di Verona che in pochi conoscono: era nell'attuale chiostro dell'università in via San Francesco, oggi rimesso a nuovo e nel quale non resta segno di quella storia se non nella lapide posta dal Comune nel 2011. «Oggi è talmente diverso – racconta la signora Smaila –. Per noi era “zona Campo Fiore”. Quando arrivammo era uno sterrato incolto, con qualche albero e un pozzo al centro. Vi si affacciavano vecchie costruzioni: ex alloggi militari composti da cucina, camera e uno stanzino. I servizi erano fuori e in comune: questa fu un'esperienza terribile. L'acqua si prendeva in cortile. In quella casa eravamo in sette. Una situazione della quale quasi ci si vergognava. Alla fine eravamo tutte persone che lasciavano una vita agiata».
Ma l'approdo in Campo Fiore fu solo
l'ultima tappa per la famiglia Smaila.
La piccola Marina ha nove anni e mezzo
quando, con le trecce e il cappottino, lascia la sua casa col
giardino sul mare a Fiume e l'officina da fabbro del padre, fondata
dal nonno nel 1906 (sotto l'Austria Ungheria che riconosceva la
nazionalità italiana). Non vedrà più i giochi e la cameretta:
«Partimmo con l'essenziale. I mobili li avevamo trasportati a
Venezia dove c'era un deposito per noi profughi».
Il fratellino Renzo nel cortile del campo profughi di Verona |
Nel 1947, col trattato di Parigi,
cadono le speranze della famiglia Smaila. E così partono papà
Giorgio, 40 anni, e mamma Irene, 37 che aspetta un bambino, e i figli
Giorgio, Franco, Marina e la più piccola Luciana. «Ne andava del
nostro futuro e papà decise di venir via: i miei figli sono italiani
e moriranno italiani, ripeteva. O venivamo via o perdevamo la
cittadinanza italiana, la nostra cultura e la religione». Da un
giorno all'altro, si parte. Non si porta via neppure un attrezzo
dall'officina che è stata requisita. I nonni restano. Gli Smaila
danno l'ultimo sguardo indietro, poi la loro strada andrà sempre
avanti.
Arrivo a Trieste con la famiglia e due zii (Marina è la seconda in basso a sinistra) |
La famiglia trascorre due anni nel
campo. Ma papà Giorgio si dà subito da fare per cercare lavoro e
portare via tutti. «Mantova era ostile. Ero emarginata dalle
ragazzine; mi dicevano che non ero italiana. Allora papà mi disse:
“Di' loro che sei doppiamente italiana: perché sei nata italiana e
perché hai lasciato tutto per continuare a esserlo”. Ci spronava a
non commiserarci». E questa consapevolezza traspare nel racconto di
Marina, mai carico di livore per le ingiustizie subite. «Mai
piagnucolar, diceva papà. In questo gli devo molto: i nostri
genitori ci sostennero, abbiamo sviluppato un'estrema dignità per
reagire alla situazione. Ero diversa, sì, ma speciale».
La risalita della famiglia parte da
Verona, città vicina a Mantova ma che offre maggiori possibilità di
trovare un lavoro: ci sono molte imprese edili di ingegneri fiumani.
Gli Smaila si spostano qui. Non avendo però possibilità di
affittare una casa, ricevono quella del campo profughi. «Eravamo
trenta famiglie circa, ma la situazione era decisamente migliore.
Avevamo due stanze, ma con porte e finestre. E anche se eravamo tutti
appiccicati, l'alloggio era nostro. Tra le famiglie si fece amicizia:
le donne si trovavano in cortile per lavare la biancheria d'estate e
facevano i turni di pulizia dei bagni. C'era fratellanza per forza di
cose. Per proseguire gli studi, mio fratello maggiore andò in
collegio a Grado, l'altro lavorò con papà. Noi andavamo a scuola e
la mamma badava a tutti noi. Coi suoi vecchi vestiti ci confezionava
abiti. E per la porta d'ingresso cucì anche le tende. Piantò
qualche fiore in cortile. Non abbiamo mai dato l'impressione di
essere poveri e Verona si mostrò più aperta di Mantova, forse era
indifferenza che però faceva meno male del disprezzo».
Nel '55, la famiglia Smaila ottiene una
casa comunale in affitto a San Bernardino: «Finalmente un bagno
nostro». È la fine dell'esodo: «Ci siamo riconquistati una vita
decente con sacrifici estremi di tutti noi: il primo cappotto nuovo
l'ho avuto a vent'anni».
Delle famiglie di Campo Fiore ognuna è
andata per la sua strada («I miei vollero dare un taglio a quel
passato, non ne parlarono più») mentre la signora Marina è tornata
nella sua Fiume, coi figli, in villeggiatura più volte. La villetta
e l'officina sono state abbattute, ma non i ricordi di quelle radici
che la signora – mai senza garbo – segnala laddove vengono
sacrificate dalla tecnologia e dall'informatica: «Una volta in
Pronto soccorso su un certificato risultò che ero apolide, un'altra
volta moldava; sulla carta d'identità volevano scrivere Jugoslavia.
Giro con il riferimento della legge del 1989 che dice che sono
italiana e che sui documenti, nel nostro caso, basta scrivere il nome
del paese (Zara, Fiume...) senza accompagnarlo da altre diciture.
Sono di Fiume, punto. E sono italiana».
Credo che ci siano tanti frammenti di storia che val la pena di non dimenticare.I ricordi, per quanto personali, alla fine appartengono all'umanità, e per questo sono ancora più importanti.
RispondiEliminaVerissimo! Grazie per questa riflessione.
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