26 dicembre 2014

Nevrosi di guerra. Aleardo Salerni e la predisposizione originaria

Il primo conflitto mondiale fu un banco di prova per la psichiatria di primo Novecento che dovette affrontare la nevrosi di guerra sulla base di categorie diagnostiche tradizionali.
Ci furono diverse interpretazioni. Alcuni psichiatri sostenevano che la follia fosse una forma di fuga, anche voluta (in tal caso il soldato andava punito con terapie aggressive, come l'elettrochoc, per convincerlo che fosse meglio tornare al fronte). Altri abbracciarono la teoria della predisposizione originaria. Lo fece anche il dottor Aleardo Salerni, che curò i soldati di San Giacomo.
 Il medico riconobbe in pochissimi casi la «causa di guerra» alla base della loro nevrosi, perché considerava quei soldati «destinati» alla follia: le difficoltà della vita al fronte avevano in realtà fatto emergere una predisposizione latente. Propose per loro la riforma, non ritenendoli in grado di combattere, e puntando il dito su chi aveva selezionato l'esercito arruolando persone «inadatte». La riforma, per Salerni, aveva un duplice scopo: tutelare la salute dei combattenti ed eliminare le difficoltà di amministrazione dell'esercito «depurandolo» dai soggetti non idonei al servizio militare.
Per questo, anche per la cura, la misura più urgente era l'allontanamento dalla trincea. Salerni propose spesso, per i suoi soldati, un lungo periodo di convalescenza e riposo in famiglia.
Catalogando le malattie dei militari secondo le categorie diagnostiche tradizionali, le curò poi altrettanto tradizionalmente, con elettrochoc, ipnosi, ma anche col riposo, appunto, e l'ergoterapia: il lavoro. Eretto nel 1880, infatti, il San Giacomo nacque come colonia agricola ed era una sorta di villaggio autosufficiente, cinto da mura, con padiglioni per i malati e alloggi per i medici con le famiglie, e sartoria, calzoleria, locali per la tessitura, orti e pollai, dove erano impiegati i pazienti.
La nevrosi si manifestava al fronte con i primi atti di incoscienza del soldato: discorsi privi di senso, scatti d'ira, fuga dal proprio posto, confusione. Veniva così inviato all'ospedaletto da campo dove restava al massimo 15 giorni: occorreva recuperare «materiale umano» da rispedire in trincea in breve. Se i sintomi non sparivano, i soldati passavano agli ospedali militari nelle retrovie, come quello di Verona, che a sua volta li inviava in osservazione al San Giacomo. Chi veniva dimesso, tornava all'ospedale e poi al fronte. Alcuni furono trasferiti in manicomi della loro provincia, altri riformati, altri si suicidarono sulla via di casa. E chi tornò in famiglia faticò a riprendere la vita di prima, con parenti che non li riconoscevano più.  
di Maria Vittoria Adami, da L'Arena, 7 settembre 2014

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